La Rosa Ritrovata

Era nata, chissà per quale strano gioco del destino, in un fitto roveto, al margine estremo di un orto coltivato. Un muretto di mattoni separava quel fitto intrico di sterpaglie, così anomalo, a contatto con quell’orto di campagna coltivato con tanto ordine e con grande varietà di verdure e fiori, in maggioranza rose, dalie, astri e giacinti distanziati da piccoli cespugli di asparagina. Una cura particolare era dedicata alla coltivazione dei fiori, anche perchè erano destinati ad ornare le tombe dei cari defunti di famiglia. Sembrava quest’orto un’oasi di armonia tanto era l’ordine e il vigore che vi regnava. Ma, proprio oltre il muro di cinta, verso nord, aveva preso dimora con forte tenacia questo roveto. Costituiva comunque un buon nascondiglio per roditori e piccoli animali che lì in mezzo a quelle grosse spine potevano vivere indisturbati. Probabilmente solo il fuoco o una grande forza devastatrice avrebbe potuto stanarli. Gli abitanti delle case attorno che non erano ancora particolarmente disturbati dai piccoli animali non si preoccupavano più di tanto di estirpare questa sterpaglia. Nei loro orti e giardini riuscivano mediante giusti accorgimenti a tenere lontano gli animali che sarebbero stati dannosi per le loro coltivazioni.
Era nata, in questo roveto, una pianta di rosa insolitamente rigogliosa. Le verdi foglie erano molto brillanti e a differenza delle rose dell’orto vicino non era stata disturbata dai parassiti. Erano tiepide giornate di maggio, mese noto per la fioritura delle rose. Un bocciolo decisamente fiero andava sviluppandosi giorno per giorno. Infine sbocciò. Il suo colore era giallo intenso. Il profumo soave. La sua bellezza poteva ben creare invidia tra i fiori del vicino orto. Venne subito notato dagli abitanti della vicina casa. – Ma guarda che meraviglia quella rosa, ha avuto un bel coraggio ad andare a nascere proprio lì dentro. – Pensò ad alta voce, una mattina, la vecchia nonna, che sovente andava a supervisionare le colture nell’orto. In effetti, veder emergere, da questa folta sterpaglia, nata peraltro in una zona piuttosto ombrosa, una splendida rosa tea, era quantomeno una cosa molto insolita.
Un giorno la vecchia nonna decise di cogliere un gran mazzo di fiori da portare ai suoi cari defunti. Aveva colto numerose foglie di asparigina che avrebbero arricchito la composizione floreale e impegnò una cura particolare nel cogliere i fiori. Naturalmente aveva cercato i più belli. Alla fine era soddisfatta, ma le sembrava che mancasse qualche cosa. Assorta nei suoi pensieri spinse lo sguardo oltre l’orto, la rosa tea era lì, in piena fioritura. Sembrava quasi brillare. Decise di coglierla, l’avrebbe portata nella cappella del cimitero. Dopo aver salutato i suoi cari, era solita entrare nella cappella e pregare in particolare per quel figlio che non aveva mai fatto ritorno. Quella rosa l’aveva colta proprio per lui, sembrava fatta di luce. Accanto agli altri fiori appariva imponente. La vecchia nonna coi fiori raccolti si avviò verso il camposanto. Salì i pochi gradini e oltrepassò il grande cancello di ferro. Venne involontariamente urtata da una giovane donna in lacrime che usciva quasi di corsa. Faticò a mantenere l’equilibrio e a malapena riuscì a non lasciare cadere il grande mazzo di fiori. Non si adombrò con la giovane donna, che, era evidente, dovesse essere in preda ad un grande dolore per la perdita di qualche caro parente e forse non si era neppure resa conto di aver urtato la vecchia nonna. In quel frangente la vecchia nonna non si accorse di aver perduto la rosa tea. Si avvicinò lentamente alle tombe dei suoi cari, su ognuna depose dei fiori. Poi si diresse verso la cappella e solo allora si accorse di aver perduto la rosa più bella. Fu molto dispiaciuta per questo, ma che avrebbe potuto fare ormai, se l’avesse persa per strada forse l’avrebbe trovata sulla via del ritorno. Si fermò per lungo tempo a pregare. Quando uscì dalla cappella si accorse che i lumini erano decisamente più brillanti, segno evidente della tarda ora. Si diresse verso il cancello d’uscita con un po’ di rammarico per aver perduto la rosa. In una tomba nei pressi dell’uscita vide la giovane donna che aveva scontrato nel primo pomeriggio, inginocchiata a pregare. Aveva gli occhi lucidi e un sorriso soave. Gli sguardi s’incontrarono. – Mi dica signora ha mai visto un fiore più bello di questo? – La vecchia nonna vide immersa in un vaso di vetro accanto alla lapide la rosa che aveva perduto. Era splendida, brillava forse più di un lumino e delle gocce rilucevano sui suoi petali. E si accorse che non erano gocce di rugiada, ma lacrime che scendevano copiosamente da quel viso addolorato. Non ebbe il coraggio di dire alla giovane donna che quel fiore le apparteneva.
– Quando sono ritornata al cimitero l’ho trovata accanto al cancello, ero disperata, avevo perduto la borsa e non potevo neppure comprare un fiore, ma questa notte il mio bambino sentirà il profumo della rosa e non sarà solo. Questa rosa dev’essere nata in uno splendido giardino! –
La vecchia nonna s’inginocchiò davanti alla tomba, osservò il viso sorridente di quel giovane bimbo. Incontrò gli occhi lucenti della madre che la guardavano con riconoscenza. Pregò insieme alla madre, il suo cuore era colmo di gioia e di dolore allo stesso tempo. Si accorse che altre lacrime d’amore stavano inondando il fiore, erano le sue. Capì all’improvviso che erano lacrime di gioia. La rosa perduta non era stata dimenticata.
– Sì – disse ad alta voce – questa rosa dev’essere nata in uno splendido giardino.

La viola del pensiero e lo gnomo dei ruscelli

-Come sei buffa! Ih Ih Ih… – disse uno gnomo dei ruscelli che passeggiava nei pressi di un sentierino dove, era nata ed emergeva prepotente, una bellissima viola del pensiero.
– Ti ringrazio per il gentile complimento! Ecco un altro che pensa per metà! – rispose la viola del pensiero.
– Pensare per metà – disse stupito lo gnomo dei ruscelli – questo non me lo aveva mai detto nessuno.
– Pensare per metà vuol dire che sei appena al di là della soglia dell’apparenza. –
– Oh questa è alta filosofia. – si schernì lo gnomo.
– Vedi, quando voi non avete più argomenti tirate in ballo la filosofia e io invece ti dico che basta solo avere buon senso, e a te ne manca parecchio. –
Lo gnomo offeso si scusò con la viola: – Sai non volevo essere impertinente, il mio voleva essere un complimento! –
– Non si direbbe proprio, e allora raccontami, cosa vedresti in me? –
– Assomigli a un cane spinone. –
– Lo sapevo, descrivimi. –
– Hai sei petali… –
– Che acume… procedi. –
Lo gnomo, mogio per aver dimostrato la sua insensibilità alla viola, proseguì nella sua descrizione.
– Vedi, è la disposizione dei tuoi colori che ti fa assomigliare a uno spinone… –

Ed infatti la splendida viola aveva sei petali. Nei petali inferiori emergeva una folta barba color viola, un colore giallo tenue ne abbracciava il contorno ed una sfumatura viola molto più chiaro definiva il contorno dei petali stessi. I due petali centrali erano costituiti da due occhi della stessa intensità della barba da cui si diramavano striature viola che andavano ad invadere l’alone giallo che contornava lo sguardo del fiore. Le striature che si diramavano dagli occhi sembravano in tutto e per tutto le ciglia dei grandi occhi e la peluria attorno ad essi. Un cuore giallo pulsante costituiva il centro del fiore e componeva idealmente il naso dello spinone. Al di là della luce dello sguardo, come per la barba, una sfumatura viola creava il bordo dei petali mediani. Su in alto due petali viola intenso, costituivano le orecchie del fiore. Due grandi orecchie protese ad ascoltare.

– Sì, non c’è male, credevo peggio. – disse la viola dopo aver ascoltato la descrizione dello gnomo dei ruscelli. – Sì non c’è male come descrizione, ma è un po’ terra terra, non credi? –
Lo gnomo, che nel frattempo si era seduto sulla radice emergente di un folto cespuglio di alloro, osservava il fiore cercando di capire cosa mai avrebbe potuto vedere in quella viola che aveva avuto la sorte di incontrare per strada.
– Non c’è male tu dici, ma scusa, ti sei mai vista, sembri uno spinone. – Insisteva lo gnomo.
– Certo che mi sono vista, quando piove le gocce riflettono la mia presenza e come tu vedi, i miei occhi sono abbastanza grandi, per cui ti assicuro che mi sono vista perfettamente. Infatti ti ho detto che non c’è proprio male come descrizione. Ma se sei così bravo da vedere fuori cerca di vedermi anche dentro. –
Il povero gnomo cominciava a sudare, una viola gli stava creando un sacco di problemi.
– Cercherò di aiutarti, allora tu dici che sembro uno spinone. Tu a cosa credi di assomigliare? –
Lo gnomo stupito non si era mai posto quella domanda, ma riflettendo e osservandosi, disse:
– Io credo di assomigliare ad un uomo. –
– E se ti dicessi che secondo me assomigli ad un leprotto, cosa diresti? –
– Un leprotto, non mi sembra proprio, cosa vedi in me del leprotto? –
– In te vedo una somiglianza che va oltre l’apparenza, anche se fisicamente ti avvicini a lui. Il leprotto salta, è curioso, annusa solo per sentire gli odori, è simpatico come te, gira qua e là come te, scoppia a ridere all’improvviso senza nessuna ragione, proprio come te. –
Lo gnomo dei ruscelli non riusciva a capire se doveva sentirsi offeso o contento per la descrizione della viola.
– Perché il leprotto annusa solo per sentire gli odori? –
– Perché è curioso, te l’ho detto. –
Lo gnomo pensieroso annaspava…incerto.
Un cespuglio odoroso di calicanto che si sentiva tirato in causa esordì:
– Allora, secondo te, il mio profumo attira solo curiosità? Ricordati che il profumo è la più fine essenza della mia pianta. – disse il calicanto alla viola.
Lo gnomo dei ruscelli nel mezzo di quel duetto si sentiva in netta minoranza.
La viola volse il capo al calicanto:
– Lo so e ti ringrazio infinitamente perché la tua fine essenza delizia tutti quelli che passano vicino al sentiero, me compresa. –
– E cos’è la fine essenza? – chiese stupito lo gnomo.
– Lo devi scoprire da solo – disse il calicanto – ma la viola potrebbe esserti di grande aiuto, cerca di osservarla più a fondo. –
– Ma se ho visto in lei l’apparenza di uno spinone, il quale è anche un bellissimo e simpaticissimo cane… –
– Ti ringrazio, caro gnomo dei ruscelli, allora ti dirò alcune cose che penso, forse potrebbero esserti d’aiuto. Tu vivi accanto all’acqua che scorre, non hai mai sentito quante storie, solamente lei, ha da raccontare?
Per non parlare di tutte le creature che vivono grazie alla sua presenza e dimorano sulle rive del tuo ruscello… –
– Lo gnomo stupito disse fra sé: – E io vorrei somigliare ad un uomo e non riesco neanche a capire quello che ho attorno, e io allora cosa sono, che storie dovrei raccontare? –
– Tu sei un tramite tra le piante e gli animali… –
– Ah sì? Forse penso per metà come dici tu e non mi accorgo di quello che avete da dire. –
– Non preoccuparti, è sufficiente che percepisci il nostro linguaggio. È già molto. Ti aiuterò ancora, tu mi hai descritto molto bene, ma non hai omesso un particolare? –
– Ah sì certo, ti manca la bocca. –
– Vedi che ci sei arrivato subito, io non ho bocca, non mi serve. Tu mi vedi come uno spinone, lo spinone può correre, muoversi, io sono qui, ferma, non posso muovermi, però vorrei farlo, proprio come lui, è per questo che gli assomiglio, perché vorrei essere proprio come lui, saltare, correre, divertirmi. Ma,vedi, io posso comunque comunicare con te, non ho la bocca, non ho la voce, eppure tu mi comprendi. È la mia fine essenza a permettermi la comunicazione. Vedi, io ti ho detto che pensi solo per metà, non è vero, è stato solo per spronarti a fermarti a pensare. Io sono nata qui, da qui non posso muovermi e perciò tutto il tempo che tu utilizzi nello spostamento, io lo utilizzo a potenziare i miei sensi. Tu hai la fortuna di poterti muovere, non puoi capire quanto sei fortunato, puoi raccogliere infinite storie. I tuoi limiti, il pensiero per metà ti è stato dato per questo, se tu fossi come me ti scoppierebbe la testa. I tuoi limiti ti consentono di ampliare i confini. Cerca di essere ricettivo con chi incontri per strada, ascolta quello che ha da dirti e riponilo con ordine in un angolino della tua mente. La tua fine essenza ti permetterà di cogliere la parte più importante, le cose essenziali che un giorno avrai da dire. –
– Chi, io, avrò da dire, a chi? –
– A chi vorrà ascoltare i tuoi pensieri, verrà un giorno che non potrai più trattenere le informazioni che hai accumulato dentro di te. È come la ciotola che hai messo fuori dall’uscio della tua capanna per raccogliere l’acqua che scende dal cielo, quando è piena deborda, non ne può più contenere. Così tu avrai voglia di raccontare le nostre storie a chi non le conosce, a chi passa per caso per il sentiero ed ha voglia di conoscere le nostre storie. –
Lo gnomo dei ruscelli, colmo di nuovi pensieri, ringraziò la viola.
– Ho capito perché ti chiamano viola del pensiero, accipicchia se pensi, non avrei mai creduto che una viola avesse tante cose da dire. –
– Vedi, quando osservi una cosa, è bello vederne le corrispondenze, ma devi andare al di là e percepire tutte le sfumature della sua pura essenza. –
– Grazie viola del pensiero, non ti dimenticherò mai. –
– Grazie a te simpatico gnomo. –
Lo gnomo si alzò dalla radice, immerso nei suoi pensieri, non si era accorto che stava piovendo copiosamente, era rimasto al riparo del cespuglio di alloro.
Si avviò lungo il sentierino, verso la sua capanna nei pressi del ruscello, aprì la porta per entrare a riscaldarsi.
Fuori dall’uscio la ciotola dell’acqua piovana era colma ed iniziava a debordare…

L’Astro

Da seme mi son trovato immerso in questa terra fredda e a fatica ho affondato le radici che col tempo mi sono accorto quanto fossero resistenti. Poi il mio germoglio ha cominciato a crescere, ha perforato la dura superficie e finalmente ha cominciato a vedere la luce. Quanti sconvolgimenti ha subito la mia crescita dal normale alternarsi del giorno e della notte alla sofferenza patita per la mancanza d’acqua. Quando la terra risultava particolarmente asciutta cercavo disperatamente di affondare ancora di più le radici inaridite, cercavo di spingerle sempre più in basso ricercando un prezioso ristoro. Per fortuna però, anche nei periodi di siccità, dopo il giorno, che a me sembrava sempre più lungo, arrivava la notte. Allora sentivo un dolce ristoro, col cadere della rugiada, tentavo di protendere le mie lunghe foglie quanto più potevo, sperando di carpire tutta l’umidità che mi offriva il cielo. Di notte finalmente sentivo il mio corpo respirare e un gioioso rinnovamento mi permeava. Poi al mattino, allo spuntar del sole iniziava il mio tormento, che aumentava sempre più col crescer delle ore, ma sapevo comunque che sarebbe presto o tardi arrivata la sera. Speravo solo di poter resistere. Poi arrivavano i periodi delle piogge. I primi giorni erano una vera benedizione. Le mie radici si colmavano di linfa vitale e tutto il mio corpo era pervaso da un infinito benessere. Ma più durava la pioggia, più mi sentivo abbattuto. Il mio corpo era pesante, faceva fatica a respirare e quando il peso diventava troppo opprimente, si abbandonava a terra, spossato. A volte mi sentivo quasi annegare, ero calpestato dall’acqua che scivolava tra le rocce e gli esigui spazi di cui si era impadronita la mia terra. Poi miracolosamente smetteva di piovere e con grande fatica stendevo dapprima le mie foglie che piano piano scrollavano di dosso l’acqua in abbondanza, poi infine il mio gambo stordito ritrovava la sua naturale posizione. Sono vissuto tra le bufere. Cominciavo a chiedermi per quale motivo questo mio esistere dovesse essere così tormentato, ma mi rendevo conto che non ero solo, accanto a me un universo di vita come la mia si perdeva al mio orizzonte. Pensavo comunque che il limite di questo orizzonte non costituisse il limite per la vita che vedevo attorno, vicino e lontano da me che fosse. Poi un giorno capii. Le giornate erano sempre più tiepide e uno strano sconvolgimento avveniva dentro di me. Facevo fatica a capire cosa sarebbe accaduto. Il mio corpo cresceva e si trasformava, andava aumentando alla sommità. Un giorno sbocciai, ero uno splendido astro di montagna. Ero una vera delizia per gli insetti che venivano ad ammirarmi. Ero una grande attrazione per le api che mi visitavano e prelevavano il mio polline prezioso. Ero proprio un fiore elegante, mi sentivo fiero. Il mio colore era viola chiaro, molto brillante e il mio cuore giallo intenso.Quella stagione, che udii chiamar estate, da alcuni turisti che visitavano la mia montagna, fu molto intensa. Vissi un vero paradiso, al mio orizzonte potevo ammirare fiori variopinti, splendide creature che come me avevano sofferto gli elementi. Vedevo però tristemente anche, molte piccole piante, che non avevano avuto la forza di sopportare le avversità e ora apparivano spente, si vedeva che soffrivano per non essersi realizzate. Vegetavano tristemente, invidiando un po’ la splendida fioritura di molte di noi. Comunque la mia vita si realizzava in un bellissimo prato montano. Io ero nato nella parte più rocciosa, infatti sentivo che alcune delle mie radici erano andate ad incontrare la roccia. Accanto a me erano fiorite anche delle stelle alpine. Più lontano, dove la terra era più abbondante, avevano preso dimora altri tipi di fiori. Anche loro erano molto belli, formavano quasi delle nuvole colorate, per lo più gialle, azzurre e bianche. La mia vita aveva corso un grave rischio, ci fu infatti un giorno che temetti fortemente di morire. Una marmotta infatti aveva scavato una tana ed era venuta a sbucare poco lontano da me. Come un terremoto aveva portato fuori un’enorme quantità di terra e sassi, poi si era fermata sull’uscio curiosando tutt’attorno, sembrava proprio soddisfatta. Girò il capo verso l’alto e quando balzai alla sua vista, lei quasi ebbe un momento di incertezza. Interpretai il suo comportamento come un segno di rispetto, di tutti i fiori che vedevo attorno a me ero forse il più fiero, il più imponente. Fatto stà che quando appariva sull’uscio vedevo che spesso mi osservava con una certa curiosità. Quell’estate molti turisti si accorsero della mia presenza anche perchè la mia dimora era posta proprio sopra la tana della marmotta, che regolarmente scappava, non appena qualcuno tentava di avvicinarsi troppo. Ma poi se rimanevano delusi dalla sua fuga erano nel contempo ripagati dalla vista del mio fiore, che a sentire i loro commenti doveva essere particolarmente bello. Ero proprio fiero di me, avevo sofferto molto nella mia breve vita, ma mi ero reso conto che tutto ciò era indispensabile in vista del futuro. Il risultato finale mi ripagava dei tormenti. La parte più bella e più importante di me era sbocciata. Fu una lunga estate; un altro dolce ricordo fu il suono dei campanacci delle mucche al pascolo. Mi resi conto che fortunatamente il mio seme aveva posto le radici ad un’altezza che per le mucche era eccessiva, avrei rischiato altrimenti di perire sotto il peso di qualcuna di loro. Di quell’estate conservo anche dei tristi ricordi. Rammento infatti come molti fiori furono inavvertitamente e irrimediabilmente calpestati dagli scarponi dei turisti, che spesso non se ne accorgevano neppure. O a volte, cosa ancora più grave, lo facevano addirittura di proposito. La mia vita ebbe termine col finire dell’estate. Eravamo a settembre inoltrato, la temperatura diminuiva sempre più, anche se il sole era ancora molto caldo. Di giorno quando il sole era coperto da nuvole, i pochi turisti che ancora si avventuravano sulla mia montagna, erano sempre più imbottiti da pesanti giacconi. La mia bellezza cominciava a sfiorire, ma quell’estate avevo incontrato molti occhi amorosi e sapevo che sarei rimasto per sempre nei loro ricordi. L’ultima cosa che vidi fu un gruppo di turisti che scendevano canticchiando allegramente la montagna. Uno di loro si allontanò dal gruppo e venne verso di me. Era una giovane ragazza dagli occhi nocciola e i capelli castani. Mi guardò con gioia e, quasi chiedendo perdono, mi strappò dalle radici. Leggevo nel suo pensiero e capii che non aveva un animo cattivo. Aveva voluto prendermi con sè perchè aveva capito che tanto tra breve tempo sarei morto. Stava pensando comunque che le mie radici, che avevo inesorabilmente abbandonato, avrebbero dato nuova vita in futuro, per me invece il futuro era segnato. Mi portò a casa con sè, appiattì delicatamente le mie foglie e i miei sottili petali e mi chiuse delicatamente fra le pagine del suo quaderno di poesie.

Rebecca e lo Gnomo

Rebecca si era sempre affidata al suo destino, fin da piccola aveva imparato a considerarlo con una sorta di timore reverenziale. A volte lo identificava con un vecchio ometto: piccolo, gobbo, zoppicante che faceva uso di un vecchio bastone consumato. Le appariva spesso e sempre quando meno se l’aspettava. Lo sentiva strisciare sinuosamente sui muri, agli angoli delle vie. A volte cadeva pesantemente dalle pareti o lo vedeva dondolarsi abilmente dal grande lampadario. Talvolta compariva all’improvviso non appena apriva le finestre per cambiare aria. Volava lieve accompagnato da una sottile brezza. E se lo ritrovava lì, sdraiato comodamente in poltrona, che contemplava sornione un vecchio candelabro. Una volta lo aveva visto tra gli alari del camino: aveva sentito un piccolo disturbo provenire dalla stanza, ma stentava ad individuarne l’origine. Poi aveva notato della cenere fra le piastrelle color mattone vicino all’imboccatura del caminetto, si era avvicinata e aveva incontrato uno sguardo angelico. Rebecca si era indispettita e lui non aveva trovato di meglio che soffiarle sul viso un mucchietto di cenere rimasta nel caminetto, sfuggita all’ultima pulizia. Lei era molto arrabbiata e lui anzichè mostrarsi dispiaciuto aveva perseverato nel suo intento distruttivo spargendo i rimasugli di cenere ovunque. Un’altra volta lo aveva visto aggrappato alla lancetta dei minuti del grande orologio da cucina. Rideva sguaiatamente e il suo peso seppur lieve andava ad accelerare il percorso delle lancette. Rebecca era impegnata nella preparazione di una torta piuttosto complicata e lui proprio in quel momento era venuto a distrarla. Lei aveva tentato, mediante un pizzicotto mirato, di farlo fuggire. Ma lui aveva prevenuto abilmente la sua mossa ed era volato davanti a lei, fino quasi a sfiorarla, poi sospeso a mezz’aria sopra la spianatoia, con un potente soffio, aveva fatto volare ovunque la farina adagiata sulla tavola di legno. Una patina bianca era andata a coprire tutti gli oggetti della cucina. Rebecca aveva stretto i denti e aveva masticato amaro. Cominciava a credere che non avrebbe mai potuto competere con lui. Per potergli tenere testa avrebbe dovuto cambiare atteggiamento. E così tentò di fare. Pazienza permettendo, perché allora ne aveva proprio poca. O forse lo credeva solamente. Ormai aveva capito che avrebbe dovuto imparare a convivere con questo gnomo dispettoso, avrebbe dovuto diventare sua amica. Già perché il timore reverenziale che nutriva da piccola, ora, l’aveva abbandonata. Aveva capito però che non avrebbe potuto in alcun modo contrastarlo. Ultimamente stava diventando proprio dispettoso o forse lei non lo sopportava più. Da piccola l’aveva sempre visto. Compariva per brevi attimi. Poi scompariva. Negli ultimi tempi la sua presenza era sempre più assidua. Ma la cosa più fastidiosa è che lo considerava sempre più come un antagonista. Aveva scoperto però che non avrebbe potuto ignorarlo. Aveva tentato questa tattica e lui si era dimostrato sempre più indisponente causando piccoli incidenti. Aveva capito che per renderlo innocuo, nel limite del possibile, avrebbe dovuto metterlo sempre in prima posizione. Era come un bambino viziato, voleva sempre ottenere quello che voleva. Quel giorno Rebecca si era ripromessa di essere molto paziente e con una buona dose di sicurezza si era seduta e stava leggendo tranquillamente un libro, i gomiti appoggiati al ripiano della scrivania e le mani che sostenevano la testa. Percepì un soffio intenso e rapidamente sentì scivolare il nastro che raccoglieva i suoi capelli, prima che avesse il tempo di trattenerlo. La folta frangia le coprì la visuale.

Riflessi 

Il sole filtra da due vecchie ante di legno socchiuse e attraversa i vetri consunti della piccola finestra.

Appaiono, chiare e trasparenti, svariate striature e quà e là delle macchie rotonde, forse nate da bolle d’aria miste a piccoli granelli di sabbia.
I difetti d’origine e gli agenti esterni hanno donato una bianca opacità a questi piccoli resistenti vetri e neppure la più accurata pulizia ormai sarebbe in grado di rendere loro una certa trasparenza.
L’indiscreta curiosità del sole và ad illuminare il vecchio assito di legno evidenziando piccoli nei o pregi donati al pavimento dall’usura del tempo.
Sono visibili piccoli profondi solchi e sottili schegge in parte staccate ai bordi delle vecchie tavole, a testimonianza dell’uso.
Al più leggero passo un intensissimo pulviscolo invade la dorata trasparenza del raggio di sole rendendolo all’improvviso quasi corposo.
Da un grande profondo silenzio, l’eco di vecchi suoni familiari.
Un crescendo di suoni ovattati accompagna immagini sfuocate.
Un piccolo concerto di passi cadenzati uniti a decisi riflessi sonori del pavimento di legno avvolge in un estatico ricordo le immagini suggerite dalla mente.
Il crepitio di ceppi accesi nell’odoroso caminetto e un intenso profumo di legna arsa aleggiano nell’aria…
S’ode come un lieve rimescolio provenire dal fumante paiolo di rame annerito dal fuoco.