Il Ragno e la Mosca

C’era una volta un ragno che decise di costruire la sua tela sul soffitto di un grande appartamento di un vecchio palazzo nobile. Splendidi affreschi ornavano la stanza.
E lui pensò – Ecco, qui sarò al sicuro, le mie prede abbagliate da tanta bellezza, cadranno nella mia tela e non potranno più scappare. –
E così una sera, in un angolo particolarmente buio, iniziò il suo lavoro. Con la grande abilità di un ingegnere iniziò a percorrere innumerevoli volte un tragitto sempre più ripetitivo. Lavorò febbrilmente tutta la notte e al mattino si fermò spossato, aveva compiuto la tela. Fermo in un angolo contemplava il suo lavoro, non c’era un particolare che stonasse, non c’era un’imprecisione. Una grande tela invisibile copriva lo spigolo di una stanza. Questa stanza al mattino prese vita, era una delle tante stanze adibite a museo di un grande palazzo ducale. Molta gente arrivava, osservava meravigliata le pareti che mostravano con orgoglio delle grandi opere d’arte e poi si soffermava a guardare il soffitto. Il ragno se ne stava lassù, un po’ intimorito, ma sicuro di non essere visto perchè la sua tela si confondeva con gli innumerevoli colori sbiaditi dell’affresco. Guardava i visitatori, in vita sua non aveva mai incontrato tanti occhi meravigliati. Ecco finalmente dalla grande porta d’entrata arrivò volando elegantemente una mosca. Si guardava in giro un po’ frastornata da tanta confusione e un po’ meravigliata dalla bellezza della stanza. Andò a fermarsi sulla maniglia di apertura della grande finestra che dava su un enorme cortile. Un caldo sole iniziava ad inondare la stanza e lei provò un sottile piacere nel sentirsi cullata da questo tiepido abbraccio.
Il ragno la guardava e già la vedeva sua preda. – E’ solo questione di tempo – Pensò. Il tempo passava e il sole inesorabilmente penetrava la stanza, andando ad illuminare dapprima il bellissimo pavimento a mosaico poi lentamente la grande parete ornata di quadri. Al centro di quella parete faceva bella mostra un’importante specchiera con una splendida cornice di legno dorato finemente intarsiata. E il sole andò a riflettere questo grande specchio creando tutt’attorno un’esplosione di luce. Un riflesso di luce dorata andò ad illuminare anche la grande tela del ragno. Dall’estrema periferia lui osservava atterrito. Un grande pulviscolo sollevato al passaggio di tutti quei visitatori era andato a depositarsi anche sulla tela che ora appariva evidentissima. La prima a notarla fu proprio la mosca, che fu grata a quel raggio di sole che le aveva scoperto un infernale tranello. La mosca che ormai si era riscaldata le ali, iniziò a volare per quella stanza, osservando con curiosità tanta bellezza e scrutando con non curata indifferenza il ragno deluso. Entrarono altre mosche, ma tutte rimasero colpite dalla tela e volarono alla larga dal ragno. Il ragno capì di essere stato scoperto anche da alcuni visitatori e decise che non gli restava altro da fare che andare a costruire la sua tela in un luogo più appartato. Il museo chiudeva e il custode apriva le finestre per cambiare aria. La mosca allora volò via. Quel giorno, per puro caso, aveva evitato di cadere in un tranello fatale.

Il Seme

Quando finalmente compresi la mia identità, capii anche che era ora per me, di abbandonare il mio luogo di nascita. E sì, tra breve, mi sarei staccato dalla mia pianta madre. Una profonda tristezza mi avvolgeva. Ah, ma la scoperta della mia identità è quanto di più sublime si possa immaginare. Mi sentivo in origine come se navigassi in un limbo confuso, allora era come se fossi cieco, avvolto da una dolce frescura, abbracciato da quelli che erano, e che sono tuttora i miei fratelli, me ne stavo lì, pigiato da tutte le parti, senza vedere oltre, senza potermi muovere. Mi sentivo, però, molto tranquillo. Sentivo la fresca acqua proveniente dal gambo, irrorare il mio corpo e quello dei miei fratelli. Di giorno, a fatica intravedevo la luce del sole, perché i mille petali gialli del mio fiore si stendevano per catturare i raggi del sole, che solo in seguito capii, essere vitali per me. Di notte l’atteso riposo, i petali si chiudevano, ma nonostante sembrasse a prima vista che tutto fosse tranquillo, dentro di me e attorno a me sentivo che c’erano in atto dei cambiamenti, delle trasformazioni. I giorni e le notti passavano e ahimè i petali che componevano il mio fiore diventavano brutti, in origine erano gialli come il sole. Col passar del tempo il giallo diventava marroncino, poi i petali non assorbivano più acqua e infine seccavano. Ricordo ancora con gratitudine quel giorno di vento forte. Una folata particolarmente violenta staccò i petali dal mio corpo. Erano ormai completamente disidratati e privi di vita. Balzai prepotentemente in primo piano. Un nuovo mondo viveva davanti a me. Vedevo un cielo limpido, distinguevo i contorni di un’alta montagna e le folte chiome dei pini. Ero nato nei pressi di un sentierino. Vedevo le api ronzare intorno, ma ormai non disturbavano più il mio fiore. Ma un’altra strabiliante scoperta mi colse impreparato. Sentivo un continuo fermento, finchè un giorno svegliandomi mi parve di essere catapultato in un altro mondo. I petali avevano ceduto il posto a dei sottili filamenti e all’estremità di ogni filamento minuscole braccia si stendevano e quasi andavano ad abbracciarsi le une con le altre. Parevano microscopici ombrellini con dei manici che al confronto erano veramente sproporzionati. Osservando questa esplosione di piccoli ombrelli dal mio posto di privilegio avevo l’impressione di vedere la trasparenza di una tovaglia di pizzo sapientemente lavorata. Ma non è tutto, quando la lieve brezza scuoteva questi esili filamenti, il sole penetrandovi dentro formava dei curiosi chiaroscuri quasi come un piccolo lembo di morbido velluto. Ma ecco allora i primi sospetti, sentivo il mio corpo pericolosamente scosso e cominciavo a nutrire il forte dubbio che prima o poi avrei dovuto abbandonare il mio fiore. E arrivò il triste momento. In effetti fu un vero terremoto. Arrivò di corsa un bimbetto di pochi anni in compagnia del suo cane, considerevolmente più alto di lui. Accanto a me s’arrestò.

– Mamma guarda questo fiore, che strano.-
– E’ un soffione, quelli che vedi sono tutti semi, come fiore è già appassito, ma se tu provi a soffiare forte vedrai i semi staccarsi e volare. –
Il bimbo curioso allungò la mano e strappò il mio gambo. Sentii una forte vibrazione proveniente dal gambo su fino a percorrere i lunghi filamenti, su fino a scuotere i piccoli ombrellini. Solo per un attimo tutto parve tornare alla tranquillità. Il bimbo incamerò più aria che poté nei suoi polmoni e con forza soffiò prepotentemente sul mio fiore. Inutile dire che quello fu per me un vero terremoto. Per me, ma naturalmente l’effetto subito fu uguale anche per i miei fratelli. Una parte di loro venne allontanata con poca difficoltà. Li vidi volare lontano e pensai che probabilmente non li avrei più rivisti. Era una giornata ventosa. Ma il bimbo dovette ripetere altre due volte l’operazione devastatrice prima di riuscire a staccarmi inesorabilmente dalla mia pianta. Non ebbi tempo per le tristezze. Vidi gli occhi lucidi del bimbo brillare per l’emozione. E soffiando ulteriormente nella nostra direzione cercava di farci volare ancora più in alto. Temetti fortemente di finire nella bocca del suo cane che per me era veramente gigantesca. Infatti non appena quel cane mostruoso si accorgeva che il suo piccolo padrone soffiava nella nostra direzione per farci volare più in alto, lui al contrario tentava di farci suo boccone. Fortunatamente non ebbe successo. Un potente soffio di vento allontanò inesorabilmente la nostra piccola nuvoletta. Già perché con me erano volati via molti altri semi. Ed ecco, questi sono forse, gli attimi più belli. Mi trovavo con altri semi, a volare lieve, quasi non avessi peso, vedevo il bimbo lontano che ci salutava agitando la mano e il suo gigantesco cane abbaiava nella nostra direzione, agitando festosamente la coda, poi con la lunga lingua penzoloni si allontanava, seguito dal suo piccolo padrone. Quali estatiche emozioni provai in quel volo contro il tempo. Via via il numero dei compagni di viaggio diminuiva. Alcuni cadevano a terra, altri cambiavano direzione, ma non oltre riuscivo a seguire il loro viaggio. Ad un certo punto mi trovai solo. Mi sentivo però libero, non avevo paura. Avevo l’impressione di essere leggerissimo e mi sentivo inoltre sostenuto dal mio piccolo ombrello. Mi sentivo sicuro perché avevo l’impressione di essere un paracadutista. Il mio viaggio ad un certo punto sembrò terminare. Mi ritrovai dolcemente adagiato su un ramo di pino, strano posto per un seme come me, ma che meraviglia, da qui potevo vedere un intero prato. Non ebbi il tempo di ambientarmi che venni letteralmente spinto via dal passaggio di una formica invadente, in realtà avevo intralciato la sua via. E mi ritrovai a volare. Il vento lieve era mio complice, sosteneva amorevolmente il mio viaggio. Mi sentii cadere nuovamente fino a toccare un mare azzurro, era un grande fiordaliso. Il suo colore era così intenso che mi sembrava quasi di sprofondare in un abisso marino. Fu una breve sosta. Sospinto verso l’alto da una folata di vento mi ritrovai a danzare al tempo di un magico valzer. E ricaddi dolcemente ai margini di un grande profumato fiore di campo solleticato dal turbinio creato dal folto polline. Quella che poteva sembrare una bella permanenza in realtà non lo fu affatto. Venni sospinto più volte dal movimento sgraziato e irruento di due api in febbrile attività sopra di esso. Stordito dal polline, dal profumo intenso e dal vociare insistente delle api, ad un certo punto mi ritrovai nuovamente a volare. E questo fu il viaggio più lungo. Una costante brezza soffiava ora da nord e io mi ritrovai a volare in alto, molto in alto. Un panorama indimenticabile! Ero molto in alto, ma non riuscivo più a distinguere il mio luogo d’origine. Distinguevo splendidi fiori dalle più svariate sfumature di colore. E iniziai a riflettere. Io, così piccolo, così microscopico come potevo rendermi conto di tutto ciò. Io, che rappresentavo forse la centesima parte di un solo fiore e mi ritrovavo ora a vedere dall’alto tanta bellezza, a cosa sarei servito? Bè non voglio che voi mi crediate così egoista da parlare sempre di me, perché mi rendo conto che come me, milioni e milioni di fratelli simili a me si chiedono forse le stesse cose. Ma io ho avuto una grande fortuna se paragonato a molti di loro. La natura mi ha dotato di ali e mi ha permesso di vedere una splendida armonia intorno a me. Distratto da queste mie considerazioni non mi sono accorto che il vento ha cessato di soffiare. Ed eccomi qui a planare verso quella che ho l’impressione sia la mia definitiva dimora. E non mi dispiace affatto. Anzi credo che mi troverò veramente in ottima compagnia. L’amichevole zefiro mi ha guidato nei pressi di un minuscolo corso d’acqua, attorno a me un piccolo prato di non-ti-scordar-di-me e una splendida pianta di tarassaco dai fiori incredibilmente colorati. Eccomi giunto a terra. Da qui posso osservare con un po’ di fatica il gigantesco tarassaco e gli esili fiorellini azzurri. La vista diretta del sole, ora, mi è impedita da insormontabili ostacoli. Grandi foglie mi oscurano e inizio a roteare come in una voragine e mi sento calamitato dal suolo. Una grande tristezza mi assale, ma il mio dolore è mitigato dal ricordo di tanta bellezza. Bellezza che non tutti i miei fratelli hanno potuto apprezzare. Sì, finalmente ho capito che per rinascere un giorno, ora il mio corpo dovrà morire. Affonderò nella terra il mio seme. E là, nel buio, la mia anima subirà delle trasformazioni. Dal mio piccolo corpo spunteranno delle lunghe braccia invocanti. L’umidità della terra faciliterà questo compito. Poi inizierò a crescere. I preziosi elementi donati dalla terra agevoleranno la mia crescita. Poi un giorno un piccolo germoglio spunterà dal morbido terreno. La luce del sole allora ritornerà ad accarezzarmi e mi donerà il colore del prato. Il giorno e la notte si alterneranno e io continuerò a crescere sempre di più. Si espanderanno le mie radici, si ingrandiranno le mie foglie e infine, finalmente, anche il mio fiore vedrà la luce del sole. Gli insetti del prato arriveranno ad onorarlo. Io allora sarò fiero di me, sarò fiero della bellezza che ho generato. Vivrò in tutta la mia pianta, conoscerò tutte le sensazioni del fiore e sarò piacevolmente stupito quando alla base dei gialli petali del mio fiore, un piccolo seme pigiato fra molti si sentirà navigare in un limbo confuso e comincerà a chiedersi, nonostante tutto, il perchè di tanta tranquillità.

Il Serpentello d’acqua e la Farfalla stolta

-Ehi tu, ehi tu che stai sorvolando la mia palude, fermati, ti voglio parlare! –
Una grande farfalla dalle splendide ali variopinte stata perlustrando quell’angusto acquitrino.
Vide un serpentello che faceva capolino dalla riva e incuriosita decise di fermarsi, si posò sulla foglia di una canna e interrogò quella voce che l’aveva chiamata:
– Ciao, ma tu chi sei e perchè stai nascosto nell’acqua? –
Il serpentello ghignava fra sè.
– Io sono un serpente d’acqua e questo è il mio habitat naturale, ma tu splendida creatura alata dimmi, giungi forse dall’arcobaleno, tanto sono belli i colori delle tue ali? –
La farfalla vanesia prese a dischiudere le ali, era consapevole della sua bellezza e altro non desiderava che ricevere dei complimenti.
– Ma che bel complimento, grazie, lo so di avere delle belle ali e so anche che molti me le invidiano –
– Ah si, e perchè te le invidiano, lo sai forse tu? –
– Ma come, me le invidiano per la loro bellezza e vorrebbero averle, non desidereresti anche tu avere delle ali così belle? –
– Dimmi, meravigliosa creatura, a cosa ti servono quelle splendide ali? –
– Ma che domanda, mi servono per volare? –
– Ma tu da dove vieni? –
– Io sono nata nel grande prato, lontano da qui, se tu potessi vedere gli splendidi fiori del prato, scopriresti che il colore delle mie ali non è poi tanto eccezionale, o mamma mia ma cosa sto facendo, se la mamma scoprisse che ho dato confidenza ad estranei, mi metterebbe in punizione, devo scappare subito –
– Ma tu cara farfalla puoi considerarmi un amico –
– La mamma si arrabbierebbe se sapesse che ho sorvolato la palude, mi ha detto che qui è pieno di pericoli –
– Cara amica, questo non è vero e per dimostrarti la mia sincerità ti farò visitare il mio acquitrino così potrai scoprire che non esistono pericoli –
– Come posso sapere se sei sincero? –
– Devi fidarti del tuo istinto, cara farfalla! –
La farfalla decise di fidarsi del serpentello.
– Seguimi –
Il serpentello prese a nuotare nel laghetto, la farfalla si elevò in volo dalla foglia di canna e dall’alto prese a seguire il piccolo serpente.
– Ecco vedi, questo è il mio amico ranocchio –
Il ranocchio intimorito dal serpentello di colpo si ammutolì.
– Caro ranocchio la mia amica farfalla mi ha detto che s’è sparsa una strana voce nel prato; si dice che la nostra palude sia piena di pericoli, hai mai sentito cosa più inverosimile di questa? –
– Pericoli, qui da noi, e quali sarebbero questi pericoli, noi non ne conosciamo –
– Visto che siamo diventati amici vi dirò cosa si dice di questa palude a patto che manteniate il segreto –
La farfalla si era posata sulla punta di una canna ondeggiante.
– Cara farfalla se non puoi fidarti dei tuoi amici a chi dovresti dare confidenza ? –
– Allora, caro ranocchio e caro serpente, si dice che nella palude animali mostruosi mangino le farfalle –
– Ma dimmi tu, caro serpente, se hai mai sentito una simile assurdità – disse il ranocchio al serpente.
– Ti hanno raccontato una cosa non vera, ma chi potrebbe mangiare una farfalla bella come te? – disse il serpentello guardando di sottecchi il ranocchio.
– Ti faccio una proposta per dimostrarti la nostra amicizia, sorvola in lungo e in largo la nostra palude e poi raccontaci se hai incontrato dei pericoli –
– Va bene amici, volerò intorno e poi vi racconterò cos’ho visto –
La farfalla vanesia prese ad ispezionare la zona. Incontrò parecchie libellule e tentò di interrogarle, ma da loro non ottenne alcuna risposta; volavano velocemente, pareva avessero una gran fretta. Incontrò poi numerose zanzare di palude e neppure da loro ottenne risposta. Ritornò così dal ranocchio e dal serpentello.
– Posso dirvi con sincerità che questo è un posto ben strano, oltre a voi due amici miei, gli altri animali che ho incontrato si sono dimostrati davvero scostanti, una libellula per poco mi ha investito e non si è nemmeno scusata e le zanzare non mi hanno neanche degnato di uno sguardo –
– Ma che sentono le mie orecchie – disse il ranocchio al serpentello – se abbiamo la fama di una grama ospitalità è forse anche comprensibile, che le libellule e le zanzare fossero così scortesi con gli amici è davvero deplorevole, non l’avrei mai immaginato! –
– Quando tornerò a casa racconterò tutto alla mamma così vedrà che non esiste pericolo nella palude, anche se certi insetti sono davvero scortesi ho trovato due grandi amici –
Il ranocchio e il serpentello ghignavano sotto i baffi.
– Cara farfalla – disse il serpentello – data la nostra amicizia mi permetto di chiederti un grosso favore, sai fin da piccolo ho sognato di avere le ali e di volare sopra il mio acquitrino, la natura ha stabilito che io dovessi nuotare nell’acqua, ma prima di morire vorrei tanto vedere il mio mondo dall’alto –
“Che attore consumato” pensava fra sè il ranocchio.
– Caro serpente come vorrei accontentarti, ma se ti presto le mie ali poi io non posso più volare –
– Sarebbe solo per poco tempo, non vorresti esaudire l’ultimo desiderio di un vecchio amico? –
– Ebbene si, non è forse vero che l’amicizia è sacra, e allora si, ti presterò le mie ali –
Il ranocchio stentava a reprimere una grande risata, quella farfalla rappresentava la quintessenza della dabbenaggine.
– Grazie farfalla, dovrai venire più vicino, io non posso salire sulla canna –
E così la farfalla volò a sfiorare lo specchio d’acqua e si posò sulla foglia di una ninfea che emergeva.
– Eccomi qua – e così dicendo con l’aiuto delle zampe posteriori si tolse le ali e le posò sul dorso del serpente.
Il serpente felice come non mai e ancora incredulo iniziò a spiegare le ali e si accorse con suo grande stupore che poteva davvero volare!
Il ranocchio al colmo dello stupore osservava il serpente volare dimenticando quasi di avere sotto mano una preda davvero succulenta.
Il serpentello incredulo osservava il suo mondo dall’alto, possibile che il suo folle sogno si fosse davvero realizzato?
Guardava dall’alto la palude umida e fangosa e lontano intravide il grande prato dove viveva la povera farfalla stolta. Le splendide ali della farfalla erano davvero il debole riflesso della grande bellezza di quel vasto prato. I raggi del sole parevano far letteralmente brillare le corolle dei fiori multicolori. Api dorate e farfalle variopinte volavano su quel tiepido manto verde tempestato di colori e una brezza soave creava un’atmosfera di sogno.
Il serpente si pentì di aver ingannato la farfalla.
“Non è posto per te la mia palude, farfalla vanesia, tu devi vivere in quel prato” si diceva fra sè il serpentello.
Tornò indietro verso il suo acquitrino sperando di arrivare in tempo. Mano a mano che s’allontanava dal prato fiorito e prossima si faceva la sua palude, vedeva la grande differenza di quei due mondi: dai tiepidi raggi solari che facevano brillare i colori alla folta bruma della palude che ovattava i pallidi contorni delle canne e delle acque color del piombo. Solo una farfalla stolta avrebbe potuto inoltrarsi in quella foschia spettrale.
Era la prima volta in vita sua che vedeva una farfalla così bella e che, grazie a lei, vedeva dall’alto il suo mondo, nessuno in tutta la sua vita gli aveva fatto un simile dono.
Doveva assolutamente tornare dalla farfalla e renderle le sue ali, prima che il ranocchio la divorasse.
“Non arriverò mai in tempo” si disse fra sè il serpente.
La farfalla stolta guardava con gioia il serpentello volare con le sue ali e disse:
– Caro ranocchio come sono felice, sento di aver fatto una buona azione –
Il ranocchio sempre più stupito esitava a ingoiare la farfalla.
Era turbato, non poteva credere che una simile creatura si fosse lasciata ingannare così stupidamente, ma ciò che lo stupiva di più era che le ali della farfalla potessero davvero far volare il serpentello.
– Cosa fai con la bocca spalancata, non sei contento che il tuo amico abbia esaudito un suo grande desiderio? Guarda sta per ritornare! –
La farfalla ondeggiava le antenne felice come non mai.
– Ci sei riuscito, caro serpente, hai volato con le mie ali, ce l’hai fatta! –
– Ranocchio, non farlo! Te lo proibisco! – urlò il serpentello.
Il ranocchio risvegliato all’improvviso dai crampi allo stomaco e avendo davanti a sè quel comodo insetto non esitò oltre e con un balzo spalancando la grande bocca ingoiò la povera farfalla.
Il serpentello addolorato da quella visione cadde nell’acqua, le sue ali all’improvviso non sopportarono più il suo peso.
– Ti avevo detto di non farlo ranocchio malefico –
– Sei diventato matto, quella farfalla ti ha fatto perdere la ragione –
– Se tu avessi visto il mondo dove vivono le farfalle non avresti più il coraggio di mangiarle –
– A grullo cosa vuoi che mi importi del mondo delle farfalle, a me interessa il buon saporino che resta nella mia bocca –
– Vergognati, pensi solo a mangiare –
– E a cosa dovrei pensare, a volare? –
Il serpentello si vergognava di aver ingannato una povera farfalla stolta. Il suo sacrificio però non sarebbe stato vano. Il volo che aveva potuto fare gli aveva mostrato un altro mondo, ma ora cosa gli restava? Due splendide ali variopinte! Le staccò dal dorso e le pose ad asciugare in alto sopra la foglia di una canna.
“Che vergogna” si diceva fra sè il serpente “questo sacrificio non sarà stato vano. Quando queste ali saranno asciutte volerò ancora sul grande prato e avviserò tutte le farfalle di stare alla larga dalla palude”.
Il manto della notte oscurò anche la palude e il canto del ranocchio si diffuse per l’aria.
– Piantala, stanotte non ti sopporto –
Il serpentello non riusciva a dormire.
– Va bene ricambierò il favore –
– Quale favore? –
– Visto che per merito tuo mi sono gustato una deliziosa farfalla, ricambierò il favore cucendomi la bocca –
– E’ meglio che te la cuci davvero se non vuoi che ti stritoli –
Il ranocchio scrollò le spalle e si zittì all’istante.Finalmente la notte terminò e la fitta nebbia si dissipò, quella mattina insolitamente serena portò caldi raggi solari a scaldare la palude; le ali della farfalla lucenti più che mai si specchiavano in quella luce dorata. Il serpentello le pose sul suo dorso, ma si accorse che non volavano più, si erano come irrigidite. I colori brillavano ancora, ma… non avevano più vita. Il serpente tentò ancora e ancora di spiegare le ali, ma invano, le ali erano rigide.E il serpentello pose le ali sopra la foglia di una canna, dove ancora oggi è possibile vederle per chi si trovasse a sorvolare l’angusto acquitrino.

Il serpentello pentito dal suo gesto sconsiderato continua a nuotare nella palude pensando a quella povera farfalla che gli aveva dimostrato la sua amicizia arrivando a donargli persino le sue ali.
Il ranocchio satollo nuota tranquillo nell’acquitrino compiendo frequenti incursioni subacquee; al termine del giorno il suo pranzo è sempre garantito da zanzare e insetti vari.
Il tempo passò, quanto non lo sapremo mai, ma il serpentello non potè mai dimenticare quella farfalla stolta che per un attimo gli donò le sue ali e gli fece scoprire la visione di un altro mondo, diverso dal suo.

Il sogno della casa lungo il fiume

Era, in realtà, un piccolo grande corso d’acqua che scorreva ai bordi di un grande prato. Il suo corso irregolare a tratti si restringeva nelle piccole anse che incontrava rallentando sensibilmente per poi riprendere con maggiore forza quando il tratto percorso si faceva più agevole. Le sue acque erano trasparenti e sonore ed avevano il potere di riflettere l’azzurro cielo. Le alte chiome degli olmi e dei pioppi che crescevano presso le sue rive svettavano morbide e fluttuanti a salutare quelle acque che scorrevano inesorabili ed eterne interrotte a tratti da curiosi mulinelli.  Quello specchio fluido e inarrestabile esprimeva tutto ciò che accadeva alle sue rive ed il riflesso verdastro del manto erboso era come una coperta da cui la giovane donna non sapeva districarsi. Pace e l’inquietudine dimoravano in quelle acque solitarie.

In quelle acque dimoravano piccole case galleggianti dalle forme alquanto improbabili che ad un’attenta osservazione fluttuavano sospese al ritmo delle acque tranquille, simili a roulotte affrescate dai colori del prato. Faceva questa considerazione la giovane donna in quella giornata primaverile. Ad un tratto le tornò alla mente una famiglia che viveva nei pressi del fiume. In quel momento vide quella cugina che da molti anni non incontrava, lo stupore la colse come la simultaneità del suo pensiero. Rimase col fiato sospeso quando le chiese se sarebbe stata disposta ad accompagnarla a far visita ancora una volta a quella famiglia il cui ricordo era perso nei meandri della mente. La cugina dopo un breve tentennamento le disse: Sì, andremo. Anche lei era decisa a ritornare. Presero a percorrere un lato della riva, passo dopo passo gli arbusti si infittivano sempre più fino a trasformarsi in un piccolo boschetto, improvvisamente giunsero alla casa, ma vista dall’interno appariva molto diversa da come era possibile immaginare. Era come l’enorme tronco di un albero scavato e sdraiato su quel piccolo grande corso d’acqua. Osservandola all’interno appariva davvero enorme, piccole finestrelle permettevano di vedere le rive circostanti e curiosi particolari distinguevano quell’ambiente insolito. I piccoli mobili della cucina erano composti da ante bianche e lisce che avevano un lato delineato da una fettuccia bianca dai bordi ondulati nella cui parte centrale rilucevano schierati bottoni di bianca madreperla. Questo particolare appariva in netto contrasto con l’interno della casa da cui emanava un’atmosfera decisamente fiamminga. L’incontro con le persone della casa fu emozionante, essi ricordarono un incontro avvenuto in altri tempi. Sembravano marito, moglie, una ragazzina, un ragazzo maturo che raccontava di una guerra vissuta molti anni prima. Un’atmosfera amichevole, un magico stupore si era creato. La giovane donna chiese loro l’indirizzo perchè avrebbe voluto mandare una cartolina in seguito per ricordare l’incontro e in modo che anche loro ricordassero l’avvenimento. Tentava di scrivere ciò che loro le dicevano, ma le rimanevano solamente frammenti dei loro nomi, Maria, Vittorio, oppure Mario, Vittoria? Il tempo scorreva e la visita volgeva inesorabilmente a termine, la cugina che viveva vicino al grande prato si era già accomiatata dalle persone della famiglia e attendeva nei pressi dell’uscita dove si era fermata a salutare dei conoscenti che però non appartenevano alla casa. Faticava la giovane donna a staccarsi da quella casa scavata nel legno e ancora tentava di ricordare quell’improbabile indirizzo che non voleva proprio rimanere registrato nella sua mente.

Vedeva altri spazi nei pressi di quei luoghi, vedeva quelle case antiche costituite da due piani, i soffitti molto bassi, i colori della facciata tenui e leggermente sbiaditi dal tempo, le chiusure delle finestre composte da assi di legno che non lasciavano filtrare la luce del giorno, per quel motivo forse li chiamavano scuri. Quelle case le aveva quasi sempre viste chiuse. forse anche per quello aveva avvertito quel silenzio che da sempre le accompagnava. Era un silenzio surreale, fuori dal tempo se osservato nel contesto della realtà attuale. Quel profumo di silenzio era l’essenza stessa delle case, scorreva fra i riccioli delle ringhiere che delineavano i piccoli terrazzini. Era l’aura stessa di quelle case, inscindibile da esse, silenzio, pace, solitudine, un flusso di eternità che scorreva parallelo alle rive di quel fiume abitato da ricordi d’altri tempi. Quel flusso di eternità si rigenerava ai bordi di quelle case dimenticate, dove fiorivano vecchi roseti abbandonati dai colori dorati sfumati di rosso. Confusa da quei ricordi non si era accorta che il tempo della visita giungeva a termine. Il saluto con la cugina sfumava nella speranza di un ulteriore incontro nei pressi di quel corso d’acqua. Tornando sui suoi passi ancora incontrò il grande prato, ma ora vide un sentierino che precedentemente non aveva notato, era regolarmente percorso, la prova ne era un calpestio  dell’erba. Vide in lontananza una giovane donna che lo percorreva, a quel punto pensò che potesse essere stata una storia vera.

Il Volto Ritrovato

Fiorito è il nostro letto
di tane di leoni circondato
di porpora protetto,
di pace edificato,
di mille scudi d’oro incoronato.
(San Giovanni della Croce)

Era una stagione dai forti sapori.

Inquietanti accadimenti avevano disseminato il ritmo incalzante dei giorni in quell’estate dall’aroma particolare. Avvenimenti inspiegabili diventavano comprensibili agli occhi di una follia emergente dagli strati più disparati del consorzio umano. Il destino terreno banalizzato da una politica di parte assumeva contorni lapidariamente definiti. Ogni definizione aveva come presupposto l’affermazione di un’idea politicamente schierata.Tutto il resto non faceva notizia, il destino interrotto di decine di persone nella tregua di un fine settimana poteva riportare il peso di un ordinario insignificante articolo, nulla di più sul fiume del dimenticatoio…
Aveva bisogno di riaffermare il senso, di ricomporre il filo del pensiero, di ricordarne e riscoprirne la logica provenienza.
Nell’intrigo ingarbugliato di una visione unilaterale, altri volevano riaffermare una verità, tale come rivelata, che doveva sostenere un ragionamento oscuro, e per lei insoddisfacente. Doveva riscoprire quei pilastri incorruttibili che sostenevano il peso di ogni discorso, di ogni visuale possibile. Doveva ritrovare quella logica che si applica ad ogni latitudine, razza, appartenenza, credo: la logica del pensiero universale.
Costretta a confrontarsi con la vacuità del tempo sentiva il bisogno di definire un punto fermo, un perno su cui far ruotare il senso dei suoi fluidi accostamenti. Oltre l’apparente festival dell’effimero voleva far emergere quella struttura operante nei giorni che sostiene il giogo dell’irreale, apparente, superficiale razionalità.
Si guardava intorno, in quella calma apparente, in quel pomeriggio fresco ed assolato di mezzo agosto. Tutto pareva all’insegna dell’ordinario…
Quella calma apparente era la logica delle stagioni, il verde intenso di un’estate, ma rivelava un senso più profondo.
Ed il senso dell’esistenza riemerse prepotente in un silenzio d’ascolto. La forza della vita era regolata da un pensiero che si manifesta in una dimensione sconfinata…

…ed il corpo non più vincolato dalle fasi transitorie del tempo, nella solitudine dei luoghi silenziosi rinasceva in una dimensione priva di ogni definizione ed uno spazio incolmabile penetrava la sua anima. In questo spazio privo di misura viveva pienamente il suo ritmo. Inginocchiata davanti ad un altare spoglio incoronato da pareti di nudo mattone, percepiva il freddo della pietra e viveva l’essenziale nell’accogliere quel silenzio abissale e si sentiva lei non più come io individuo, ma parte di quell’Amore infinito onnicomprensivo, si sentiva parte stessa dell’essenza…
E percepiva che nella scala delle creature solo l’uomo può diventare santo, profeta, angelo, può proferire una parola all’altezza della Sua dignità, può diventare tramite di quell’Amore sconfinato perché le sue azioni Lo manifestano, le sue parole Lo definiscono ed il suo cuore Lo può contenere.
In quella scarna pietra il silenzio si diffonde ed il pensiero abbraccia un vuoto ricolmo di sussurri, fondamento di nuova vita.
…e s’immerse nell’incanto del paesaggio, in quelle rive assolate e silenziose dove ondeggiano fluttuanti gli steli fioriti dorati e argentei dell’assenzio. Dove quell’aroma evanescente ricolma di sensazioni impalpabili i nuovi spazi percepiti dalla mente. E in quelle fasi transitorie del tempo riemergeva quel volto soave che illumina del suo sguardo l’orizzonte. Un nuovo sapore di sole s’innalzava dalle pietre impolverate, dalle erbe inaridite ai bordi dei sentieri, dalle cortecce muschiose dei pini, dall’aroma dei licheni. E in quell’azzurro si perdeva uno sguardo sconfinato e profondo ed un sentore antico percepiva i suoni, vicini ed infiniti, suscitati dalla brezza del meriggio. Quel volto soave viveva nell’azzurro destato dal sapore di un incanto rivissuto. Profumava di conche boscose, si dissolveva, lento, all’incedere dell’estate, inseguiva serafico le nubi mutevoli, in forme ed armonie, stupefacenti ed insolite. Si insinuava evanescente nel suono degli aceri che diffondono inquietanti parole. Colorava i pendii assiepati al tramonto e i rododendri nella tenacia dell’estate. Si diffondeva ad ogni profumo, andava a comporre ogni nuovo colore. Quel volto soave e possente lo ritrovavi in ogni dove, nei piani paralleli e sottili della mente, era il vissuto di ogni stagione, lo sentivi nel passato e nel presente, lo prospettavi nel tuo tempo imminente. Il volto ritrovato era quel volo che plana sul tempo, foriero di sostenibili prove. Lo sentivi compagno, amico, antagonista. Quel volto ritrovato nell’incanto di un meriggio era l’essenza di un antico fulgore. Era il tempio della vita che ti donava il suo sostenibile chiarore.