Fiorito è il nostro letto
di tane di leoni circondato
di porpora protetto,
di pace edificato,
di mille scudi d’oro incoronato.
(San Giovanni della Croce)
Era una stagione dai forti sapori.
Inquietanti accadimenti avevano disseminato il ritmo incalzante dei giorni in quell’estate dall’aroma particolare. Avvenimenti inspiegabili diventavano comprensibili agli occhi di una follia emergente dagli strati più disparati del consorzio umano. Il destino terreno banalizzato da una politica di parte assumeva contorni lapidariamente definiti. Ogni definizione aveva come presupposto l’affermazione di un’idea politicamente schierata.Tutto il resto non faceva notizia, il destino interrotto di decine di persone nella tregua di un fine settimana poteva riportare il peso di un ordinario insignificante articolo, nulla di più sul fiume del dimenticatoio…
Aveva bisogno di riaffermare il senso, di ricomporre il filo del pensiero, di ricordarne e riscoprirne la logica provenienza.
Nell’intrigo ingarbugliato di una visione unilaterale, altri volevano riaffermare una verità, tale come rivelata, che doveva sostenere un ragionamento oscuro, e per lei insoddisfacente. Doveva riscoprire quei pilastri incorruttibili che sostenevano il peso di ogni discorso, di ogni visuale possibile. Doveva ritrovare quella logica che si applica ad ogni latitudine, razza, appartenenza, credo: la logica del pensiero universale.
Costretta a confrontarsi con la vacuità del tempo sentiva il bisogno di definire un punto fermo, un perno su cui far ruotare il senso dei suoi fluidi accostamenti. Oltre l’apparente festival dell’effimero voleva far emergere quella struttura operante nei giorni che sostiene il giogo dell’irreale, apparente, superficiale razionalità.
Si guardava intorno, in quella calma apparente, in quel pomeriggio fresco ed assolato di mezzo agosto. Tutto pareva all’insegna dell’ordinario…
Quella calma apparente era la logica delle stagioni, il verde intenso di un’estate, ma rivelava un senso più profondo.
Ed il senso dell’esistenza riemerse prepotente in un silenzio d’ascolto. La forza della vita era regolata da un pensiero che si manifesta in una dimensione sconfinata…
…ed il corpo non più vincolato dalle fasi transitorie del tempo, nella solitudine dei luoghi silenziosi rinasceva in una dimensione priva di ogni definizione ed uno spazio incolmabile penetrava la sua anima. In questo spazio privo di misura viveva pienamente il suo ritmo. Inginocchiata davanti ad un altare spoglio incoronato da pareti di nudo mattone, percepiva il freddo della pietra e viveva l’essenziale nell’accogliere quel silenzio abissale e si sentiva lei non più come io individuo, ma parte di quell’Amore infinito onnicomprensivo, si sentiva parte stessa dell’essenza…
E percepiva che nella scala delle creature solo l’uomo può diventare santo, profeta, angelo, può proferire una parola all’altezza della Sua dignità, può diventare tramite di quell’Amore sconfinato perché le sue azioni Lo manifestano, le sue parole Lo definiscono ed il suo cuore Lo può contenere.
In quella scarna pietra il silenzio si diffonde ed il pensiero abbraccia un vuoto ricolmo di sussurri, fondamento di nuova vita.
…e s’immerse nell’incanto del paesaggio, in quelle rive assolate e silenziose dove ondeggiano fluttuanti gli steli fioriti dorati e argentei dell’assenzio. Dove quell’aroma evanescente ricolma di sensazioni impalpabili i nuovi spazi percepiti dalla mente. E in quelle fasi transitorie del tempo riemergeva quel volto soave che illumina del suo sguardo l’orizzonte. Un nuovo sapore di sole s’innalzava dalle pietre impolverate, dalle erbe inaridite ai bordi dei sentieri, dalle cortecce muschiose dei pini, dall’aroma dei licheni. E in quell’azzurro si perdeva uno sguardo sconfinato e profondo ed un sentore antico percepiva i suoni, vicini ed infiniti, suscitati dalla brezza del meriggio. Quel volto soave viveva nell’azzurro destato dal sapore di un incanto rivissuto. Profumava di conche boscose, si dissolveva, lento, all’incedere dell’estate, inseguiva serafico le nubi mutevoli, in forme ed armonie, stupefacenti ed insolite. Si insinuava evanescente nel suono degli aceri che diffondono inquietanti parole. Colorava i pendii assiepati al tramonto e i rododendri nella tenacia dell’estate. Si diffondeva ad ogni profumo, andava a comporre ogni nuovo colore. Quel volto soave e possente lo ritrovavi in ogni dove, nei piani paralleli e sottili della mente, era il vissuto di ogni stagione, lo sentivi nel passato e nel presente, lo prospettavi nel tuo tempo imminente. Il volto ritrovato era quel volo che plana sul tempo, foriero di sostenibili prove. Lo sentivi compagno, amico, antagonista. Quel volto ritrovato nell’incanto di un meriggio era l’essenza di un antico fulgore. Era il tempio della vita che ti donava il suo sostenibile chiarore.