Checco

Era stata una lentissima, inesprimibile agonia…

Un giovane gabbiano era rimasto vittima di un cacciatore.
Quel giorno, già alle prime luci dell’alba, nascosto da folti cespugli, immobile, il cacciatore scrutava il cielo.
Quello che si udì fu il primo ed unico sparo della giornata. Il pentimento del cacciatore fu improvviso perché non tardò a rendersi conto di aver colpito un’inutile preda. Un gabbiano stava cadendo rovinosamente a terra, le grida di dolore fecero rabbrividire il cacciatore.
Il cane ammaestrato partì alla ricerca. Poco lontano dalla postazione, in una vasta radura, giaceva il gabbiano. Era rimasto completamente privo dell’ala sinistra, solo un moncherino insanguinato spuntava appena, andando a tingere abbondantemente di rosso le piume del petto. Oramai era evidente che quel povero gabbiano non avrebbe mai più potuto volare. Il cane abbaiava e lui col becco spalancato lanciava grida strazianti. Il cacciatore restò colpito dalla visione di quel volatile ferito e richiamò il suo cane. Non aveva il coraggio di abbattere quel povero animale e proprio in quel preciso momento capì che avrebbe definitivamente abbandonato il suo fucile perché mai più sarebbe riuscito a premere il grilletto.
S’imponeva però una decisione, quel giovane gabbiano non poteva restare lì, sarebbe morto comunque di fame o sarebbe rimasto vittima dei predatori notturni.
Un’idea prendeva corpo nella mente del cacciatore, forse una scommessa con se stesso, e se fosse riuscito ad addomesticarlo?
Davanti alla sua casa di campagna un grande cortile recintato avrebbe potutocostituire un sicuro riparo. La condizione necessaria era una possibile convivenza col suo cane. Charlie infatti viveva in perfetta armonia con gli animali domestici, ma con un gabbiano le difficoltà avrebbero potuto essere insormontabili.
Il povero gabbiano contorceva con angoscia il moncherino dell’ala tentando contemporaneamente con l’ala destra di librarsi in volo. Gli sforzi compiuti provocavano indicibile dolore. Aveva però notato, il cacciatore, che da quello che restava dell’ala sinistra il sangue pareva coagularsi rapidamente. Sì, avrebbe tentato! Forse il gabbiano sarebbe sopravvissuto.
Nella sua fattoria un’enorme vasca d’acqua ospitava un vivaio di trote…forse…
Si avviò verso casa e subito si accorse che Charlie stentava a seguirlo, continuava a guardarsi indietro nella direzione del volatile, poi guardava il suo padrone. Charlie non capiva l’evolversi della situazione.
Il cacciatore e il cane lentamente lasciarono la radura. Le grida del volatile diminuivano d’intensità mano a mano che i due si allontanavano.
In breve arrivarono alla fattoria. L’uomo si avvicinò alla vasca delle trote, ne prese alcune col retino, le mise in un sacchetto e si indirizzò col suo cane alla volta della radura.
Charlie seguiva il suo padrone con un certo stupore. Quando giunsero alla radura il povero gabbiano giaceva a terra spossato. Non appena, però, si accorse dei due si rizzò sulle zampe malferme e cominciò a lanciare urla di dolore. L’uomo prese una piccola trota e tentò di avvicinarsi, ma il gabbiano impaurito si allontanò, allora il cacciatore lasciò cadere il pesce vicino al volatile e indietreggiò. Charlie che aveva capito essere una situazione anomala si era sdraiato discretamente al bordo della radura lasciando piena libertà d’azione al suo padrone.
Il gabbiano attratto dall’inconfondibile aroma del pesce e ricordandosi all’improvviso di essere affamato, dimenticò i forti dolori e s’avvicinò alla trota ingoiandola avidamente. Il cacciatore tirò un sospiro di sollievo, dentro di sé sapeva che il suo piccolo progetto sarebbe andato a buon fine. Prese un’altra trota lanciandola al gabbiano, ma questa volta la distanza tra loro era diminuita. Ancora una volta il gabbiano ingoiò la comoda preda. La paura iniziale pareva sensibilmente diminuire. Il cacciatore con un ampio stratagemma iniziò ad avviarsi verso casa preceduto da Charlie. Durante il cammino lasciava cadere una trota dopo l’altra. Il gabbiano aveva preso ad inseguirli. Passo passo, lentamente arrivarono a casa seguiti a distanza dal gabbiano.
Finalmente il volatile ferito era al sicuro entro il recinto della fattoria.
Charlie faticava a comprendere la dinamica degli avvenimenti, ma sapeva in cuor suo che avrebbe rispettato qualsiasi decisione del suo padrone.
I giorni passavano e il moncherino ferito si rimarginò perfettamente. Il dolore fisico provocato dallo sparo si attenuò notevolmente, ma un altro dolore, più opprimente si era impadronito di lui.
Charlie nutriva una sorta di timore reverenziale nei riguardi del gabbiano, anche se ora aveva capito che sarebbe diventato un ospite fisso della fattoria.
Sensazioni conflittuali opprimevano il cuore di Checco, questo era il nome dato al povero gabbiano. Un insopprimibile istinto di libertà dominava i suoi sensi. Era divenuto il beniamino della fattoria, guardato con rispetto dagli altri animali, quasi fosse un ospite illustre venuto in visita di cortesia.
Checco sapeva di essere al sicuro, sentiva attorno a sé un profondo rispetto, ma non riusciva a sentirsi uno di loro, faticava a prendere confidenza, costretto a vivere in un mondo non suo.
Fu quello un periodo strano per la fattoria.
Gli animali onorati da quell’insolita presenza si erano fatti più ricettivi partecipando all’agonia del gabbiano.
Quel dolore così opprimente, insopprimibile, pareva farsi scherno di lui. Il suo sguardo era costantemente rivolto al cielo. Il suo elemento gli era stato negato. Dentro di lui si era fatta strada la consapevolezza che avrebbe potuto riprendere a vivere solamente se fosse riuscito di nuovo a volare e allora decise che avrebbe perseverato nei suoi tentativi.
Come un’autentica anima in pena, il gabbiano prendeva la rincorsa percorrendo l’ampio cortile con tutto il fiato che aveva in corpo e contemporaneamente tentava di spiegare le ali. Tutti i suoi sforzi erano tesi a potenziare i movimenti del moncherino sinistro e subito dopo dell’ala destra, ma dopo aver percorso in estenuanti tentativi svariati metri, si vedeva costretto, spossato, a rinunciare.
Poteva alzarsi dal suolo solamente per pochi centimetri. Si guardava in giro, poi alzava gli occhi al cielo, non era accaduto nulla, lui era sempre lì, nel cortile della fattoria.
Incontrava a volte gli sguardi compassionevoli di Charlie e degli altri animali, si sentiva colpevole di questa loro tristezza perchè sapeva che partecipavano al suo dolore.
Fatto sta che il tempo passava e il gabbiano era sempre lì a tentare di spiegare l’ala e il piccolo moncherino.
Inesorabilmente ogni tentativo falliva sul nascere, alla fine si ritrovava spossato con gli occhi fissi al cielo e il cuore che batteva sempre più forte.
Non riusciva a trovare pace e nemmeno equilibrio. Il suo insopprimibile istinto di libertà non gli dava tregua.
Quest’agonia si protrasse per mesi. Le ore del giorno erano quasi interamente impiegate in questi vani tentativi.
Poi sopraggiunse il miracolo.
Il gabbiano aveva interamente esaurito le sue forze, aveva capito che mai più avrebbe potuto volare, per quanto il suo desiderio fosse grande, la realtà gli aveva impedito una vita normale.
Fu allora che subentrò la rassegnazione, se ne stava in disparte e osservava tutto quello che accadeva.
La sua postazione preferita era situata su un grosso ceppo di gelso presso il quale il cacciatore aveva appoggiato una piccola scaletta per permettere al gabbiano di potervi accedere.
Così, se ne stava lassù, di vedetta. Le sue piume in origine candide avevano assunto un colore grigio opaco.
Il ricordo dei tuffi in mare era sempre più doloroso, quelle sublimi sensazioni che provava quando il suo agile corpo penetrava la superficie marina parevano appartenere ormai ad un altro mondo.
Ricordava il tempo passato a cullarsi sulle onde del mare con gli occhi volti a scrutare il fondo marino.
La sola acqua che poteva assaporare adesso era quella elargita dal cielo. Nelle giornate, ahimè rare, di pioggia, rinnovava il ricordo del suo mare tendendo quanto più poteva l’ala e il moncherino tanto da immergersi nella pioggia che cadeva e protendeva il capo verso l’alto, spalancando il grosso becco.

Quel giorno ristorato dal ricordo del mare si beava alla vista di uno splendido arcobaleno. Guardava in alto, invidiava il volo dei gabbiani consolandosi però al richiamo dei loro gridi.

Era sceso dal vecchio ceppo del gelso deciso a sgranchirsi le zampe con una corsa per l’aia deserta. Ora se ne stava lì, spossato in mezzo all’aia, dopo averla percorsa infinite volte in lungo e in largo. Lo sguardo calamitato dallo splendido arcobaleno, il capo volto al cielo. Osservava estasiato lo stormo di gabbiani che sorvolavano la fattoria, da tanto tempo non ne vedeva così tanti. Pensava alla loro grande fortuna che forse neppure comprendevano.
All’improvviso gli balzarono alla mente tanti ricordi.

Ora riviveva i momenti in cui volava così in alto da confondersi nell’azzurro del cielo e nella luce del sole. Ricordava le note abbattute sulla roccia del mare e la dolce cantilena che sprigionavano per il sonno dei gabbiani. Ricordava le notti in cui dormiva sugli scogli e ripensava a quei momenti in cui le onde si abbattevano con tale vigore da svegliarlo. Rivedeva il riflesso talvolta accecante della luna e le sciabolate di luce che rifletteva sul mare.
Ora nelle notti di luna piena il riflesso argentato si specchiava sulla vasca delle trote e creava lunghe ombre nell’aia, lui se ne stava sul ceppo del gelso, come un lupo che ulula alla luna, adorava le luci del firmamento e poi stanco di fantasticare, colto dal sonno, volava nel mondo della notte.

– Checco, Checco, via di lì – la moglie del cacciatore urlava con tutto il fiato che aveva in corpo.
Charlie prese ad abbaiare disperatamente. Ma Checco non udì urlare il suo nome e non sentì il cane abbaiare.
– Fermati, ferma il trattore, c’è Checco – il cacciatore assordato dal motore del trattore non distinse i richiami pressanti. Era entrato in retromarcia nell’aia, deciso a portare il trattore al riparo sotto il fienile…

Finalmente Checco si sentiva rinato, delle possenti ali candide portavano in alto il suo corpo leggero. Quelle brutte piume grigie erano scomparse, il suo piumaggio era splendido. Lo stormo di gabbiani lo accolse con lunghi gridi. Checco si era risvegliato, aveva dormito un brutto sonno, ora si guardava intorno e gli sembrava di essere il gabbiano più bello. Guardò laggiù verso l’aia.
Charlie guaiva di dolore e la povera donna piangeva. Il cacciatore aveva colto il corpo inanimato e accarezzava con estrema dolcezza le piume grigie e il piccolo moncherino, poi guardava in alto verso quello stormo di gabbiani che sorvolavano la fattoria all’ombra di quell’insolito grandioso arcobaleno.
Con voce malferma rivolto alla moglie, disse – Guarda quanti gabbiani, sembra siano venuti a prendere Checco –

Checco volava felice, si sentiva leggero, trasparente. L’azzurro del cielo e la dorata trasparenza della luce del sole costituivano per lui un nuovo alimento. Ora guardava i gabbiani prendere varie direzioni, era rimasto solo a volteggiare sulla fattoria. Scrutò un’ultima volta l’aia e lanciando un forte grido di gioia si diresse con decisione verso il punto più alto dell’arcobaleno.

– Guarda come vola in alto quel gabbiano! Mi sono chiesto molte volte a cosa potesse pensare Checco quando stava tanto tempo a scrutare il cielo sopra il tronco del gelso – disse il cacciatore.
– Forse avrà sognato di volare verso un arcobaleno, povero Checco, forse avrà sperato fino all’ultimo che il suo sogno impossibile potesse realizzarsi! – rispose la moglie accarezzando con tenerezza Charlie che per tutta risposta all’improvviso prese ad abbaiare festosamente in direzione dell’arcobaleno

Dove il Fiume si Restringe 

Per poter raggiungere il centro dell’antico borgo, dalle vecchie prigioni occorreva attraversare con la barca quel punto dove il fiume si restringe. Quel punto che Agnese conosceva ormai a memoria. L’aveva visto per anni dalla sua cella fatiscente. E per anni regolarmente aveva visto i condannati a morte compiere l’ultimo viaggio con la medesima barca in compagnia del medesimo rematore, accompagnati sempre dello stesso carceriere. Quante volte aveva sentito pianti di disperazione, richieste d’aiuto, invocazioni, preghiere. Solo raramente i condannati riuscivano a raggiungere una qualche sorta di rassegnazione. Molto raramente. Agnese era una di quelle eccezioni. Quel punto del fiume le aveva tenuto compagnia per tanti anni. E la sua dolce cantilena spesso accompagnava i suoi sogni fantastici. Aveva imparato ad osservare il lieve alternarsi delle onde così bene che aveva quasi l’impressione di poterle dirigere alla perfezione come un bravo maestro d’orchestra. O come un bravo pittore avrebbe saputo immortalare a memoria le mille sfumature di colore che onoravano quelle acque, che in realtà erano immensamente tristi. Quali amare testimonianze avrebbero potuto divulgare. Già, quel punto dove il fiume si restringe. Si quel punto le ricordava l’essenza del dolore. Come una stretta al cuore, una morsa di dolore. Era un punto dove il sole trovava sconveniente riflettersi. Durante tutta la giornata permaneva solo poche ore. Era, il suo riflesso, insolitamente opaco, in quel punto e spesso nelle stagioni fredde, la nebbia era così fitta che impediva agli incerti raggi solari di penetrare la sua coltre per poi lambire la superficie delle acque. C’erano anche però delle consolanti presenze. Intere famiglie di anatre selvatiche vivevano sulle sue rive, tranquillamente indisturbate. E i loro versi, anche se non si può dire fossero proprio armoniosi, tenevano buona compagnia ad Agnese. Aveva imparato ad ascoltare la voce del vento quando si insinuava nel canneto che infittiva presso la riva. Questo fitto canneto costituiva un sicuro rifugio per i molti nidi di anatre. E il suono del vento che usciva dalle canne arrendevoli sembrava a tratti il suono di un’arpa, a tratti un sussurro, a tratti un fischio, a tratti un lamento. Quella mattina sarebbe toccato ad Agnese attraversare quel tratto di fiume. Quella notte non aveva dormito, aveva osservato per l’ultima volta il suo fiume baciato da una luna piena, insolitamente brillante. Sembrava felice di riflettersi in quello specchio vivo. Era estate e un coro di ranocchie si innalzava dalle rive del fiume. Poi ogni tanto qualcuna si tuffava nell’acqua che appariva particolarmente brillante e ampi cerchi raggiungevano lentamente la riva. A notte fonda crollò per il sonno, venne svegliata alle prime luci dell’alba. -…ngiorno Agnese. Oggi si parte per l’ultimo viaggio-. Il suo carceriere era venuto a prenderla. Si alzò e si guardò attorno per l’ultima volta. Era una piccola cella, piuttosto buia, con un letto, un cuscino, una coperta. Una piccola grata le aveva permesso per anni di poter vedere un piccolo lembo di mondo, proprio in quel punto dove il fiume si restringe. No, non aveva paura di morire, ma nel suo cuore c’era appena un pizzico di malinconia nel dover lasciare quella cella che per anni aveva costituito il suo mondo. Percorse i pochi passi che la separavano dalla porta, si girò un’ultima volta e vide appena in tempo il primo raggio di sole filtrare dalle nuvole. Percorse l’angusto corridoio sempre in compagnia del suo carceriere e l’eco dei loro passi continuava a rimbombarle nella mente. Uscì dalla prigione, la barca l’attendeva, il solito rematore attendeva di compiere il suo dovere. La guardò con occhi tristi. In tanti anni non si era ancora abituato alla morte. Aveva, nel remare, uno strano ritmo. Era quasi partecipe della lenta agonia del condannato. Infiniti pensieri affollavano la mente di Agnese, ma non riusciva a mettere a fuoco alcunchè. Decise forzatamente di rilassarsi. Voleva godersi, dopo tanti anni, il suo fiume da vicino. Si guardò brevemente intorno, ma non la interessavano le casupole che vedeva, i carri trainati dai buoi, i contadini che andavano ai campi, i bambini che affollavano la riva per vedere la condannata. Non la interessavano neppure le loro risa di scherno. No, non le importava proprio di nulla. Sapeva di essere innocente. Voleva solo assaporare le ultime emozioni che le dava il suo fiume. Si sentiva dolcemente cullata dal dondolio della barca e incontrava talvolta qualche sguardo stupito del suo carceriere e del suo rematore. Ebbe quasi l’impressione di assistere ad un muto colloquio tra quei due, naturalmente era lei l’oggetto di quella strana conversazione. Stava per raggiungere ora quel punto dove il fiume si restringe, e vedeva tutto da vicino, anzi poteva, ora, anche toccare con mano. Allungò una mano a fendere l’acqua gelida. Sfiorò le canne piangenti, accarezzò le esili foglie. Provava proprio le stesse sensazioni che aveva provato per anni. Chiuse gli occhi, era serena. In un attimo la barca arrivò alla riva. Scese lentamente e con passo pesante si avviò, scortata dal suo carceriere, verso il patibolo.

I Colori del Paese dei Cristalli

C’era una volta un bellissimo angioletto che viveva nel paradiso dei cristalli. Dovete sapere che questo paradiso era un’enorme estensione, uno spazio senza fine, in cui si poteva osservare a perdita d’occhio una varietà infinita di cristalli di ogni forma e dimensione. Erano tutti cristalli purissimi e trasparenti da cui emanavano splendide vibrazioni di colore, ogni sfumatura di colore che mente umana possa immaginare era contenuta in quei cristalli. La fonte delle vibrazioni che percepiva il nostro angioletto rimaneva però a lui sconosciuta, ma appariva ben chiaro l’utilizzo di quei colori perché quello era il suo compito principale, era infatti tenuto a controllare che tutto fluisse regolarmente e che ogni colore trovasse il suo spazio nel mondo degli umani.
E non era raro, guardando in alto verso il cielo, vedere questo angioletto affacciarsi dal suo paradiso, comodamente sdraiato sopra una nuvola, scrutare laggiù verso la Terra degli uomini per controllare che la disposizione dei colori fosse corretta. Per mezzo di un procedimento alquanto misterioso le vibrazioni di colore rendevano dinamica ogni forma di vita che Dio creava sulla Terra. Queste vibrazioni fluivano costanti dai cristalli costituendo l’alimento inestinguibile delle creature della sfera terrestre, le quali non sapevano che ci fossero leggi particolari  alla base dell’attivazione dei loro programmi vitali, ma tutto avveniva per loro in maniera naturale. Il nostro angioletto assolveva perfettamente il suo compito e Dio era fiero di lui. Era un angioletto bellissimo, proprio come quelli che si incontrano nelle favole, era piccolo, come un bambino di pochi anni, la pelle chiara, i capelli castano con dei bellissimi riccioli morbidi che incorniciavano il viso. Ma il suo carattere era inquieto e molto curioso e benché assolvesse perfettamente il suo ruolo non si accontentava mai, la sua curiosità lo spronava a cercare di capire sempre un po’ di più il significato delle cose che costituivano il suo mondo. Aveva intuito che ogni cristallo aveva un ruolo preciso, però non riusciva a capire chi avesse creato quelle splendide strutture che continuavano a rigenerarsi con cristalli sempre nuovi. La sua innata intelligenza lo portava a porsi sempre domande nuove, sentiva che gli mancavano molte informazioni, ad esempio voleva cercare di comprendere maggiormente la vita delle creature, così come si esprimeva sul pianeta Terra. Da lassù, dalla sua postazione di privilegio egli poteva osservare non solo la Terra, a cui lui era preposto, ma tutti i pianeti del sistema solare e una buona parte dell’universo. Egli si sentiva magneticamente attratto dal globo terrestre perché la bellezza e la varietà di forme di vita che osservava su questo bellissimo pianeta non aveva confronto con altri pianeti da lui analizzati e non capiva per quale motivo un privilegio così grande fosse toccato proprio a lui. Moltissimi pianeti ruotavano nelle loro orbite spaziando nel cielo sconfinato, ma nessuno era bello come la Terra. E così si trovava spesso ad osservare con sguardo sognante la sua Terra che da lassù appariva davvero incantevole. Poteva distinguere dall’alto gli oceani sconfinati azzurro intenso, i poli della terra ammantati dai ghiacci perenni, foreste verdissime, prati disseminati dai fiori multicolori, deserti sconfinati color oro, terre arate e coltivate dai contadini che mostravano sorprendenti gradazioni di colore. In cuor suo, osservando l’infinita varietà di forme e sfumature, pensava che se non fosse stato a conoscenza delle leggi spirituali implicate avrebbe certamente considerato che ciò che osservava fosse prodigioso. Poi esaminava gli uomini e gli animali e si stupiva ad osservare quell’intricata serie di rapporti che regolavano le relazioni fra le varie specie. Spesso distoglieva lo sguardo dall’osservazione dei comportamenti perché faceva fatica a capire reazioni che lui considerava brutte, ma lì saggiamente si fermava e pensava fra sé che certe cose non le avrebbe mai capite e ritornava semplicemente ad eseguire il controllo a cui era preposto. Osservava quei flussi di energia colorata emanata dai cristalli che come onde nel mare, dal suo paradiso si irradiavano verso la Terra vitalizzando le creature. E poi tornava con lo sguardo contemplativo e vagabondo a sprofondare nelle nuvole bianche e compatte che a lui apparivano come morbidi cuscini ovattati, guardava giù verso la Terra. Notava il fascino delle fasi lunari che cambiavano con l’esposizione al sole. Vedeva che quando il sole illuminava la Terra, in quella parte che veniva chiamata giorno, gli uomini erano svegli ed attivi e non solo gli uomini, ma anche gli animali e i fiori dei prati che si schiudevano ai primi raggi al mattino, mentre la parte in ombra che veniva chiamata notte, riposava silenziosa, i suoni cessavano e le creature andavano a dormire. Una parte delle creature vegliava e un’altra parte riposava. Lui osservava dall’alto del suo cielo ed era sempre sveglio, neppure capiva cosa volesse dire dormire. Si chiedeva incuriosito cosa facessero le persone quando dormivano, la fase del sonno a lui appariva alquanto misteriosa perché non l’aveva mai sperimentata… E pensò che per meglio capire avrebbe dovuto avvicinarsi a quel pianeta ed entrare nella sua orbita, avrebbe dovuto farne parte… cercò di avvicinarsi, ma fu colto da un sentimento nuovo, era molto simile allo stato d’animo che percepiva nell’osservazione dei brutti comportamenti delle creature terrestri. In effetti pensava che in un pianeta così meraviglioso tutto dovesse scorrere nell’armonia. Questo nuovo sentimento che sentiva in cuor suo era così forte che lo trattenne dall’avvicinarsi alla Terra. Per la prima volta nella sua esistenza il nostro piccolo angelo aveva sperimentato la paura, ma lui ancora non ne era cosciente. Rimase turbato da quella sensazione e il cristallo che era in lui iniziò impercettibilmente ad offuscarsi. Il suo cristallo personale era molto speciale perché conteneva, al contrario degli altri cristalli, molti colori, era una specie di cristallo arcobaleno. Quei cristalli  infatti erano molto particolari perché erano i cristalli delle creature angeliche e la sede delle creature angeliche era appunto il paradiso. Il nostro piccolo angelo vedendo nella Terra tali meraviglie non voleva arrendersi all’idea e così giorno dopo giorno, al di là dei timori che percepiva senza riuscire a capire, si avvicinava sempre di più alla sfera terrestre. Ciò che più lo affascinava era osservare i bambini giocare tra di loro. Vedeva molti bambini, in quei tempi sulla Terra, anzi a lui sembrava ce ne fossero sempre di più…
Li vedeva passeggiare coi genitori o coi nonni, poi ne vedeva a gruppi, nei parchi, nelle spiagge, nelle scuole. Giocavano tra di loro, imparavano coi grandi, a volte litigavano, ma poi sembrava che tutto passasse rapidamente e ancora li osservava che giocavano, correvano, sembrava proprio che si divertissero moltissimo. Essi avevano a disposizione giocattoli di tutti i tipi, biciclette, palloni colorati. Aveva capito che con i giochi i bimbi della Terra imparavano a diventare grandi. Lui era sempre lì nel suo paradiso però si sentiva solo, in verità aveva un ruolo importantissimo,  chissà quanti bambini della Terra se avessero saputo dell’esistenza del paradiso dei cristalli lo avrebbero invidiato e avrebbero voluto essere al suo posto… Giorno dopo giorno, col passar del tempo, questi pensieri occupavano sempre più la sua mente, diventava sempre più sensibile ai pensieri dei bimbi, dei genitori, dei nonni. Aveva capito che molti genitori desideravano avere dei bambini perché con i bambini si stava proprio bene. Così si trovava ad osservare i papà e le mamme che facevano i loro progetti e sognavano di avere dei bei bambini e diceva fra sé: -Ah se potessi essere un bambino e avere dei genitori che mi vogliono bene, non mi sentirei solo come adesso e poi potrei giocare con altri bambini.- Il nostro angioletto sognatore ormai trascorreva tutto il suo tempo a fare progetti. E così accadde durante un sogno ad occhi aperti che il nostro piccolo angelo trovò i ‘suoi’ genitori speciali. La prima volta che li vide rimase affascinato: stavano passeggiando in riva al mare osservando il volo dei gabbiani. Era la spiaggia di una bellissima cittadina di mare, era la stagione primaverile ed iniziava a far caldo, loro passeggiavano a piedi nudi lungo la riva lasciando che le onde del mare confondessero le loro orme. La ‘sua’ mamma era bellissima, aveva capelli lunghi castano scuro con dei morbidi riccioli, proprio come i suoi, il ‘suo’ papà aveva i capelli molto corti, così corti che quasi non si vedevano, ma sentiva che sarebbe stato un papà specialissimo. Passeggiavano e pensavano come sarebbe stato bello avere un piccolo bimbo che camminasse insieme a loro e raccogliesse le conchiglie portate dalle onde del mare. Loro non sapevano che un piccolo angelo, davvero speciale, lì stava osservando dal suo paradiso e aveva deciso di sceglierli come genitori.
Un pargoletto si muoveva nella culla. La mamma e il papà felici come non mai, osservavano il loro piccolo bimbo, era davvero piccolo, aveva poche settimane di vita. I genitori erano stupiti perché da diversi giorni, durante il sonno, il loro bimbo all’improvviso si metteva a sorridere. Era davvero buffo, ricordava tanto quelle creature che spesso si trovano nelle favole e che molti chiamavano gnomi o folletti. Erano creature dall’innato senso dell’umorismo che all’improvviso si mettevano a ridere ed era davvero difficile capire perché lo facessero, però il loro riso era davvero contagioso. Chi li ascoltava sentiva un desiderio irrefrenabile di ridere e non poteva trattenersi. Si incontravano queste creature specialmente nei boschi, loro infatti li amavano moltissimo perché costituivano il loro habitat naturale. Intrattenevano sovente colloqui con altre creature dei boschi con le quali si stabiliva un’immediata intesa, erano animati dalla stessa gioiosa energia.
– Ma guarda il nostro piccolo com’è contento, chissà cosa starà sognando…- disse la mamma rallegrata nel vedere il piccolo così felice.
Ed infatti il bimbo stava facendo un sogno molto piacevole e in quel momento riviveva la discussione che aveva avuto col folletto delle betulle. Stava passeggiando al margine di una radura e stanco di camminare si era fermato sotto una pianta di betulla. Un folletto che normalmente dimorava sulle alte chiome, per fare uno scherzo al piccolo, si era messo a dondolare sopra uno dei rami più bassi della pianta, così facendo le foglie più esterne ondeggiando verso il basso facevano il solletico al suo naso, il bimbo risvegliato anziché arrabbiarsi col folletto scoppiò in una sonora risata. Il folletto stupito e deluso si chiedeva come mai il bimbo non fosse infastidito.
– Caro il mio folletto, tu non lo sai che nei sogni non ci si può addormentare e così lo scherzetto questa volta te l’ho fatto io, ih ih ih…pensavi che dormissi eh?-
– Che strano bimbo sei! I bambini di solito si addormentano anche nei sogni e così io posso fare gli scherzetti, ma con te non si può, pazienza, andrò nel sogno di un altro bambino…-
Questo bimbo faceva tanti sogni bellissimi, ma erano così reali che non rammentava più se sognava o se era sveglio. Era un bambino fuori del comune, nei sogni di notte era come se fosse sveglio e di giorno era come se sognasse ad occhi aperti.
– Sai folletto, le betulle sono fra gli alberi più divertenti, non lo pensi anche tu?-
– Certo, perché pensi che io ami dondolarmi fra i rami, perché sono molto ‘saltellanti’ e creano un’enorme quantità di ombra e luce. –
– Ombra e luce…- ripeteva il piccolo e gli parve di ricordare qualcosa, rimase colpito da queste parole, nella sua mente si creavano immagini nuove.
All’improvviso gli tornarono alla mente le orbite dei pianeti attorno al sole, ombra-luce, ora ricordava, ma da lassù tutto appariva così lento… Il folletto delle betulle col suo dondolio fra i rami, fra ombra e luce, gli aveva ricordato un altro bellissimo sogno: la fonte dei cristalli e il flusso costante dei colori che danzava verso la terra degli uomini. Nel suo paradiso non c’erano le ombre, solo cristalli purissimi che emettevano colori. Iniziava dentro di lui a farsi strada la più bella storia del mondo. Ora ricordava la sensazione di paura che aveva provato avvicinandosi alla terra, era la paura di dormire e non poter più vedere la fonte delle luci colorate. Ora invece aveva compreso com’era stato fortunato, aveva capito che il sonno gli serviva per rivivere la sua esistenza nel cielo. Aveva capito, ora che aveva un papà e una mamma, che poteva vivere due volte, di giorno sulla terra e di notte poteva rivivere la sua vita vera, quella più luminosa, quella che non aveva bisogno della fase dell’ombra.
I genitori contagiati dal buon’umore del piccolo si sorpresero a sorridere divertiti.
– Forse starà ricordando dei bei momenti vissuti quando era ancora fra gli angeli del cielo.- rispose il papà con sguardo divertito e amorevole.

Il Magico Paese dei Mattoni

Nel magico paese dei mattoni gli gnomi costruttori avevano il compito di edificare dei muri perfetti.
Lavoravano allegramente sostenuti dal loro innato senso dell’umorismo; tutto ciò che facevano non li affaticava, possedevano infatti un’inesauribile energia.
Lavoravano per tutta la giornata, dall’alba al tramonto, si fermavano solamente quando l’ultimo raggio di sole illuminava sempre più debolmente il loro cielo. Solo allora si riunivano in una radura, accendevano un piccolo fuoco per riscaldarsi, mangiavano i frutti donati dal bosco e poi si raccontavano delle storielle fantastiche tramandate dai loro avi. Per loro era importante tramandare oralmente il sapere agli gnomi più giovani perché in questo paese non esistevano i libri, l’unico modo per ricordare il passato era quindi di contenerlo nella memoria.
Durante il sonno era usuale sentirli ridacchiare, avevano l’abitudine di ripetere nella loro mente le storielle anche durante la notte. Era un vero spasso essere allietati dalla loro compagnia perché erano sempre di buon umore. Quasi…sempre…
Torniamo al loro compito principale: la costruzione dei muri. Talvolta erano di cattivo umore, proprio al momento del risveglio, ma solo nel caso in cui avessero scorto fra i mattoni del muro appena terminato un luminoso, quanto inopportuno punto interrogativo. Sì, proprio un punto interrogativo, infatti ogni volta che uno gnomo terminava un muro poteva comparire questo segno…e ciò purtroppo voleva dire che il muro doveva essere abbattuto.
La costruzione dei muri è il loro compito principale e non trovano proprio nulla di strano nel dover abbattere un muro per poi riedificarlo, ma sono arrabbiati perché hanno paura di non riuscire a ricostruirlo nella maniera giusta, in fondo al loro animo, talvolta, emerge comunque la paura di fallire…
E così, purtroppo, è frequente vedere uno gnomo abbattere il proprio muro per ricominciare poi a costruirlo, l’ottimismo però non li abbandona certamente, perché sanno che quello è lo scopo della loro esistenza.
Piccolo misteri, anzi meglio dire, dei veri rompicapo, aleggiano nel magico paese dei mattoni. Nessuno gnomo è mai riuscito a comprendere come possa comparire questo strano punto interrogativo e domanda ancor più cervellotica, nessuno è mai riuscito a capire perché quando uno gnomo ha costruito in maniera perfetta il suo muro, poi misteriosamente scompaia all’improvviso sia lo gnomo costruttore sia il muro perfetto!
Questo si chiedevano gli gnomi costruttori nei momenti di scoramento, di stanchezza. Avevano, gli gnomi, la prerogativa di essere instancabili ed inesauribili, procedevano nel loro compito, consapevoli che prima o poi avrebbero costruito il loro muro perfetto. Le domande però ultimamente si infittivano nel magico paese dei mattoni. Si stava diffondendo una strana curiosità: tutti, prima o poi volevano capire a cosa sarebbe servito il muro.
Essi non costruivano case per abitarvi, le loro abitazioni erano i nidi degli uccelli, le tane dei topolini anche se spesso venivano allontanati dai legittimi proprietari a causa di un loro piccolo, grande difetto. Ricordiamo che da sempre gli gnomi hanno vissuto in buonissima armonia con gli abitanti del bosco, ma ahimè, quando emerge il terribile difetto, nessuno li può davvero sopportare. Qual è questo piccolo difetto? Russano in maniera spaventosa. Capita così che in piena notte si vedano cacciare aspramente dai legittimi abitatori delle tane e dei nidi… Per un pò si crea confusione nel bosco, ma solo per poco, il povero gnomo ripiega alla ricerca di un altro riparo per proseguire tranquillo il suo sonno. Nella foresta si trovano spesso anche vecchi nidi o tane abbandonate, ma gli gnomi si accontentano anche di un tronco o di una foglia complice che possa offrire loro ospitalità, così dopo aver ritrovato un riparo adatto per la notte, nel bosco regna di nuovo la tranquillità. Ed il riposo li accompagna fino al primo raggio di sole che penetra il loro cielo ed oscura la visione delle stelle nella notte appena trascorsa…
Quel mattino Seneca era proprio di cattivo umore. La comunità degli gnomi lo aveva chiamato così in ricordo di un uomo molto sapiente vissuto sulla Terra. L’uomo è una creatura con una prerogativa fondamentale: il pensiero, è cioè una creatura che pensa molto. Uno dei più grandi pensatori fu proprio Seneca ed è per questo motivo che nella memoria degli gnomi è rimasto un ricordo indelebile, e allora, come non ricordare una tale creatura trasmettendo il suo nome proprio allo gnomo a lui più simile? Ed è così che lo gnomo Seneca, fedele al suo umano predecessore ne porta avanti il ricordo in una maniera del tutto spontanea… pensando!
Ed eccolo arrovellare il suo povero cervello tentando di penetrare e comprendere i misteri inspiegabili che aleggiano nel magico paese dei mattoni.
Dicevamo che quel mattino Seneca era proprio di cattivo umore. Custodiva nella sua memoria il ricordo dei muri che aveva edificato ed in seguito abbattuto. Erano la bellezza di dieci muri. Numero esiguo? Solo in apparenza! Per riuscire a terminare la costruzione di un muro passava tanto e tanto tempo, ma adesso era davvero stufo! Era stufo semplicemente perché voleva a tutti i costi capire il segreto! L’impresa non era affatto semplice, perchè come un muro si perfezionava, questo automaticamente scompariva insieme al suo costruttore.
Aveva terminato il muro con tutta l’attenzione che come sempre e sempre di più cercava di riporre nell’edificazione e come al solito, misteriosamente era comparso il luminoso punto di domanda.
– Adesso devo proprio capire! Non abbatto questo muro finchè non ho capito l’errore! – Si sedette pensieroso sopra il ceppo di una quercia contemplando il muro da poco terminato. Osservava attentamente i mattoni sovrapposti ed alternati gli uni gli altri in maniera pressoché perfetta; lo strato di collante speciale era sottilissimo e molto resistente, non c’era una sbavatura, tutto coincideva alla perfezione. Si alzò ed osservò questo muro da tutti i lati; non riusciva a trovare un’imprecisione, né davanti, né sulla parte posteriore, né dai lati. Era grande, ben fatto, ma come poteva comparire quel punto luminoso?
– Devo assolutamente capire il segreto, altrimenti continuerò in eterno a rifare il muro, senza capire il perché. – Ma alle sue domande non facevano che sommarsi altre domande. – Ma perché quel punto di luce? – Si chiedeva e non riusciva a darsi una risposta. Pensa e ripensa; qualcosa iniziava a prendere corpo nella sua mente, ma non si manifestava all’esterno. Finchè… – Ma forse, non è solo un problema di precisione, non può essere, il muro non ha difetti. – E perché poi compariva un punto luminoso e non compariva segnato con un colore qualsiasi? – Forse – si disse – va bene il muro, ma… – Pensava e ripensava al paese dei mattoni e non gli tornavano i conti. Così andò per esclusione e disse fra sé – noi siamo costruttori di muri, ma di muri magici che devono scomparire, nel paese degli uomini i muri non sono magici e servono per costruire le case, dove abitano gli uomini. – Si stupì dei suoi stessi pensieri, ma come poteva lui, Seneca, povero gnomo, avere reminiscenze di mondi lontani? – calma, calma – si disse – non facciamo un brodo di ghiande… – Era un modo di dire prettamente gnomico, un po’ come per gli uomini quando dicono ‘non perdiamo la testa’. Guai perdere la testa e guai cuocere le ghiande, esse vanno consumate così come le dona la natura, esclusivamente crude e appena colte! Era anche un po’ arrabbiato con gli gnomi scomparsi, possibile che non restasse memoria del loro destino… che non ci fosse il modo per comunicare questa strana perfezione, che ogni gnomo, individualmente, doveva raggiungere? Ehi, ma cosa aveva appena detto? Individualmente… ecco il segreto! La memoria collettiva degli gnomi non comprendeva questa conoscenza.
In nessuna storia conosciuta era contenuto il segreto del punto luminoso. Ora aveva capito, quel punto luminoso lo vedeva soltanto lui e lui soltanto poteva dare una risposta, o forse meglio dire, la sua risposta! Ed allora disse – questo muro è assolutamente perfetto, ho fatto tutto quello che potevo fare nel migliore dei modi… – Per magia il muro diventò totalmente trasparente, i contorni erano ancora ben definiti, ma era diventato…trasparente. Una visione fantastica si dischiuse alla vista di Seneca: si ritrovò in un bosco incantato. No, non era incantato, era proprio reale, ritrovò all’improvviso tutti gli gnomi scomparsi felici e attivi come non mai; abitavano in case trasparenti con le pareti perfette, i mattoni erano cristalli di luce… Guardò, oltre le case fantastiche abitate dagli gnomi, sullo sfondo c’era ancora il suo bosco, ma sembrava più bello, più allegro, più vitale… Osservò con più attenzione e si accorse che si ritrovava esattamente nello stesso bosco in cui era vissuto. Non riusciva a capire… Com’è che la realtà era cambiata pur restando la stessa? Come aveva potuto ritrovare gli gnomi che prima erano scomparsi ed ora erano lì con lui. Sembrava che tutto fosse cambiato pur restando uguale… In questa nuova realtà si accorse che poteva comunicare con gli altri gnomi, comprese che tutti avevano raggiunto una consapevolezza nuova. La perfetta costruzione del muro era solo il trampolino di lancio che avrebbe portato gli gnomi in una nuova realtà. In questa dimensione si potevano costruire i muri solamente usando il pensiero. Tutto appariva più chiaro, più nitido. Percepiva un senso più vero della realtà circostante. Si accorse che la realtà era cambiata semplicemente perché lui era cambiato. Pensò a Seneca, pensò alla realtà umana; ora che lui poteva costruire i muri solo usando il pensiero, non invidiò più gli esseri umani come Seneca che potevano gestire la propria esistenza senza costrizioni, animati da un preciso progetto, perché ora anche lui comprendeva la dinamica del pensiero universale. Comprendeva l’importanza dell’individuo, della riflessione, del silenzio, del pensiero, della parola, della creazione. Il cerchio infinito si ricongiungeva ancora una volta. Il sorriso dello gnomo sollevava il peso di quel vivere solitario e pensieroso che ultimamente gli era parso così opprimente. Ora che aveva compreso quel ciclo dinamico, la solitudine non lo spaventava più perché vedeva il frutto del pensiero. Il nuovo sorriso lo aveva riportato al suo innato senso umoristico, il peso dei vecchi mattoni non aveva più motivo di essere.Gli gnomi costruttori del magico edificio luminoso, lavoravano, con infaticabile tenacia, dall’alba al tramonto, felici come non mai perché avevano scoperto il segreto dei muri che per essere perfetti dovevano essere edificati di pace ed armonia interiore.

Il Mattino di Azzurrina

Era proprio una strana stagione, quella, per gli abitanti del grande prato. Infatti ultimamente accadeva con frequenza quasi inquietante che alcune creature perdessero parzialmente la memoria…
Accadde quel mattino proprio alla coccinella Azzurrina, era una splendida coccinella: una lucente corazza arancio brillante era il suo mantello… Vagava sconsolata nella parte più rocciosa del grande prato, proprio là nei pressi di un allegro torrente, dove sassi scoscesi, ammantati di soffice muschio, emergevano solenni. Dalla cima del sasso più alto ammirava il prato e strani pensieri confondevano la sua mente: aveva in sé la sensazione di avere già visto tutto ciò, ma era uno strano ricordo, come se tutto ciò che conosceva fosse diverso.
“Oh povera me! Forza e coraggio, dopotutto mi sembra uno splendido giardino, ora lo visiterò ben bene, sperando di ricordare…”
Dall’alto della roccia in cui si trovava vedeva un imponente fiume trasparente scorrere a valle zampillando fra le rocce, il sole brillava sulla superficie dell’acqua riflettendo la luce come purissimo cristallo. All’improvviso vide stagliarsi davanti a sé un meraviglioso arco di colori, tanto repentina fu quella visione che cadde, stupefatta, letteralmente a zampe all’aria. L’arco era composto da colori brillanti, ma alla sua vista apparivano densi, quasi corposi.
“Povera Azzurrina, non avrai scordato anche me spero?”
L’imbarazzo della coccinella crebbe fortemente.
“Io sono l’arcobaleno, ricordi, nasco dall’acqua e rifletto la luce del sole, la magia dei miei colori appare come in un lampo, ma veloce giungo e veloce scompaio, solo talvolta permango più a lungo, dipende tutto dall’acqua…”
La coccinella non fece a tempo a riprendersi che già lo splendido spettacolo era scomparso lasciando in lei un piacevole stupore. Ripresasi e corroborata dalla frescura emanata da quel luogo decise di scendere più a valle verso il prato. Camminava faticosamente perché le tenaci foglioline del muschio sovente le facevano solletico e così sbuffando si fermava a grattarsi. La vegetazione era verde intenso e molto compatta infatti la terra che tutto sosteneva si intravedeva appena, a tratti… Con grande sollievo discese la parte rocciosa, abbandonando il muschio orticante. Giunse al di là della parte rocciosa dove regnava sovrana la dicondra. Ora sì che poteva muoversi agevolmente sopra quelle foglioline tondeggianti. Emergeva a tratti qualche pianta di fragola da cui frutti rossi e lucenti emanavano un profumo davvero invitante. Giunse così vicino ad una fragola che a causa del suo peso si era adagiata su una tonda foglia di dicondra, con notevole sollievo per tutta la pianta. Ricordando di avere appetito decise di ringraziare quel succoso frutto che si offriva a lei e con vero piacere l’assaporò: era davvero succosa e profumata, fresca come l’acqua e tiepida perché riscaldata dalla luce del sole. Fece davvero un gran bel spuntino e ringraziò la pianta per il dono inatteso.
“Non c’è di che” la pianta parlava per bocca di un fiore.
“Sono io, sono il fiore vicino alla fragola che hai appena mangiato. Anch’io tra poco sarà una bellissima succosa fragola e delizierò i sensi di una coccinella bella come te.”
“Cosa hai detto? coccinella?”
“Ah, ecco un’altra smemorata, se non ci fossimo noi a sostenere la situazione e a ricordare il senso del prato, andremo nella più completa confusione, ma non ti preoccupare, è una situazione passeggera, ricorderai poi tutto, col tempo… Molti animaletti come te stanno dimenticando, sono confusi e turbati, è una strana stagione per il nostro prato. Ti consiglio solo di restare serena e non fare domande in giro, sai ci sono dei fiori e delle piante dispettose che potrebbero darti delle informazioni fuorvianti…”
Il saggio fiore di fragola aveva a cuore la sorte degli amici animali, per ora la memoria delle piante non perdeva colpi e il loro ruolo proseguiva inalterato nel tempo, non osava chiedersi, lui, il saggio fiore di fragola, che cosa sarebbe accaduto se le piante avessero iniziato a dimenticare, forse lui ad esempio non sarebbe più diventato una fragola, ma al solo pensiero rabbrividì, nonostante i caldi raggi del sole…
La coccinella satolla e deliziata proseguiva la sua passeggiata nel grande prato. Un profumo soave colpì i suoi sensi, davanti a lei una grande campanella viola si chinava fino a terra.
“Come sei bella” disse la coccinella al grande fiore ”senti, se dovesse piovere potrei mettermi qui vicino a te, come se fossi il mio ombrellino?”
Non fece a tempo a porre l’interrogativo che un improvviso scroscio d’acqua si abbattè attorno.
“Che tempismo, certo, puoi restare finchè vuoi”
Le pareti della campanella erano viola trasparenti e lassù una corda giallo dorata dalla forma di ancora comunicava piacevolmente con un’ape indaffarata.
“Pista, io sto lavorando, spostati”
Azzurrina non fece a tempo a spostarsi che una nuvola di polverina gialla la investì e la fece starnutire potentemente. Un altro scroscio d’acqua si abbattè attorno al fiore.
“Che maniere, occhio, non sei mica solo, eh?” l’ape apostrofò il merlo responsabile dell’accaduto, evitando miracolosamente di essere investita da quel diluvio. Infatti un bellissimo merlo atterrato ai bordi del ruscello aveva deciso di farsi un bel bagno, ma tanto era concentrato che non udì minimamente le vive proteste dell’ape.
“Stai attenta” disse il fiore ad Azzurrina “quel merlo è peggio del diluvio, potresti annegare…”
Fortunatamente il bagno fu rapido e il merlo sgarbato volò via andando a posarsi sopra la quercia.
Azzurrina ammirava estasiata le gocce d’acqua sulla dicondra. Tonde, perfette, trasparenti. Con le zampe anteriori volle raccogliere una goccia e miracolosamente la percepì densa, quasi un cuscino su cui posare il capo…Vide così il suo volto riflesso e notò l’incredibile trasparenza dell’acqua.
“Dipende tutto dall’acqua” ricordò che aveva detto l’arcobaleno.
“Chissà che vuol dire, ha l’apparenza di un segreto” disse fra sé.
Bevve di quell’acqua dalla densa consistenza, ma dal sapore fresco ed invitante…
Proseguì la scoperta del grande prato facendo attenzione a non scivolare in quei cuscini d’acqua, ma pur ponendo molta attenzione, un paio di volte si ritrovò suo malgrado a zampe all’aria, scoprì così di divertirsi un mondo.
Incontrò allora una grande pianta dalle lunghe foglie seghettate e vellutate, al centro un grande fiore giallo, dai petali sottili e lunghi, troneggiava nel cuore della pianta. Magicamente attratta dal fiore, risalì a fatica le lunghe foglie e i sottili petali fino a giungere al suo cuore, poi si riposò.
“Ho udito il tuo pensiero, non si direbbe mai, ma io sono un soffione, in realtà sono il fiore del tarassaco, ma tutti mi ricordano come il soffione, sì di solito sono più alti di me, io sono la razza nana, ma per gli sprovveduti come te è meglio che io sia così.” Voleva riferirsi all’altezza, infatti i normali soffioni avevano solitamente uno stelo molto più lungo.
Stupita la coccinella, si chiese perché tutti, lì, apparissero così sapienti.
”Non offenderti se dico che sei sprovveduta, ma scusa perché fai tanta fatica ad arrampicarti in ogni dove, quando puoi tranquillamente volare?
Lo stupore crebbe, ma Azzurrina ricordò l’avvertimento del saggio fiore di fragola, meglio non fare domande…
Osservava dal centro del fiore il prato attorno a sé, osservava la quercia e vide in alto il ramo dove si era posato il merlo.
“Volare, anch’io potrei volare?” si disse fra sé.
Il soffione non rispose ma mise a disposizione i suoi petali affinché divenissero un buon giaciglio per tutto il tempo che Azzurrina avrebbe voluto rimanere lì.
E così rimase lì, la coccinella, forse per tanto e tanto tempo, a riflettere su tutto quello che aveva udito nel suo viaggio nel grande prato. Stava lì nel cuore del fiore e sentiva i suoi petali che respiravano alla luce del sole, i caldi raggi portavano antiche memorie, era come se le raccontassero delle storie. Sentiva questo tepore su tutta se stessa, le zampe si sgranchivano e la corazza arancione sembrava fondersi con questo colore, si sentiva crescere, diventare più grande, le tensioni svanivano e si accorse che la corazza aveva nascosto delle grandi, meravigliose, trasparenti ali! Il suo corpo cresceva e si librava nell’aria. Il tarassaco sotto di lei diventava sempre più piccolo. Vide tutto dall’alto, tutto il prato, il ruscello, la fragola, la campanella viola, il fiore giallo, ma non solo, si accorse che quello che aveva visto nel suo faticoso vagabondare era solo un piccolo, piccolissimo settore di quel prato. E si accorse che ai limiti del grande prato, altri prati, sempre più grandi si perdevano a vista d’occhio. Salì in alto, ancora e ancora e giunse a posarsi su un ramo della grande quercia. Sotto di lei un merlo smemorato stava ancora scrollando le ali, aggiustandosi le piume bagnate.
“Sì dipende tutto dall’acqua” le aveva detto quel mattino l’arco di colori nato nei pressi del ruscello, ora lo aveva capito anche lei.