Per poter raggiungere il centro dell’antico borgo, dalle vecchie prigioni occorreva attraversare con la barca quel punto dove il fiume si restringe. Quel punto che Agnese conosceva ormai a memoria. L’aveva visto per anni dalla sua cella fatiscente. E per anni regolarmente aveva visto i condannati a morte compiere l’ultimo viaggio con la medesima barca in compagnia del medesimo rematore, accompagnati sempre dello stesso carceriere. Quante volte aveva sentito pianti di disperazione, richieste d’aiuto, invocazioni, preghiere. Solo raramente i condannati riuscivano a raggiungere una qualche sorta di rassegnazione. Molto raramente. Agnese era una di quelle eccezioni. Quel punto del fiume le aveva tenuto compagnia per tanti anni. E la sua dolce cantilena spesso accompagnava i suoi sogni fantastici. Aveva imparato ad osservare il lieve alternarsi delle onde così bene che aveva quasi l’impressione di poterle dirigere alla perfezione come un bravo maestro d’orchestra. O come un bravo pittore avrebbe saputo immortalare a memoria le mille sfumature di colore che onoravano quelle acque, che in realtà erano immensamente tristi. Quali amare testimonianze avrebbero potuto divulgare. Già, quel punto dove il fiume si restringe. Si quel punto le ricordava l’essenza del dolore. Come una stretta al cuore, una morsa di dolore. Era un punto dove il sole trovava sconveniente riflettersi. Durante tutta la giornata permaneva solo poche ore. Era, il suo riflesso, insolitamente opaco, in quel punto e spesso nelle stagioni fredde, la nebbia era così fitta che impediva agli incerti raggi solari di penetrare la sua coltre per poi lambire la superficie delle acque. C’erano anche però delle consolanti presenze. Intere famiglie di anatre selvatiche vivevano sulle sue rive, tranquillamente indisturbate. E i loro versi, anche se non si può dire fossero proprio armoniosi, tenevano buona compagnia ad Agnese. Aveva imparato ad ascoltare la voce del vento quando si insinuava nel canneto che infittiva presso la riva. Questo fitto canneto costituiva un sicuro rifugio per i molti nidi di anatre. E il suono del vento che usciva dalle canne arrendevoli sembrava a tratti il suono di un’arpa, a tratti un sussurro, a tratti un fischio, a tratti un lamento. Quella mattina sarebbe toccato ad Agnese attraversare quel tratto di fiume. Quella notte non aveva dormito, aveva osservato per l’ultima volta il suo fiume baciato da una luna piena, insolitamente brillante. Sembrava felice di riflettersi in quello specchio vivo. Era estate e un coro di ranocchie si innalzava dalle rive del fiume. Poi ogni tanto qualcuna si tuffava nell’acqua che appariva particolarmente brillante e ampi cerchi raggiungevano lentamente la riva. A notte fonda crollò per il sonno, venne svegliata alle prime luci dell’alba. -…ngiorno Agnese. Oggi si parte per l’ultimo viaggio-. Il suo carceriere era venuto a prenderla. Si alzò e si guardò attorno per l’ultima volta. Era una piccola cella, piuttosto buia, con un letto, un cuscino, una coperta. Una piccola grata le aveva permesso per anni di poter vedere un piccolo lembo di mondo, proprio in quel punto dove il fiume si restringe. No, non aveva paura di morire, ma nel suo cuore c’era appena un pizzico di malinconia nel dover lasciare quella cella che per anni aveva costituito il suo mondo. Percorse i pochi passi che la separavano dalla porta, si girò un’ultima volta e vide appena in tempo il primo raggio di sole filtrare dalle nuvole. Percorse l’angusto corridoio sempre in compagnia del suo carceriere e l’eco dei loro passi continuava a rimbombarle nella mente. Uscì dalla prigione, la barca l’attendeva, il solito rematore attendeva di compiere il suo dovere. La guardò con occhi tristi. In tanti anni non si era ancora abituato alla morte. Aveva, nel remare, uno strano ritmo. Era quasi partecipe della lenta agonia del condannato. Infiniti pensieri affollavano la mente di Agnese, ma non riusciva a mettere a fuoco alcunchè. Decise forzatamente di rilassarsi. Voleva godersi, dopo tanti anni, il suo fiume da vicino. Si guardò brevemente intorno, ma non la interessavano le casupole che vedeva, i carri trainati dai buoi, i contadini che andavano ai campi, i bambini che affollavano la riva per vedere la condannata. Non la interessavano neppure le loro risa di scherno. No, non le importava proprio di nulla. Sapeva di essere innocente. Voleva solo assaporare le ultime emozioni che le dava il suo fiume. Si sentiva dolcemente cullata dal dondolio della barca e incontrava talvolta qualche sguardo stupito del suo carceriere e del suo rematore. Ebbe quasi l’impressione di assistere ad un muto colloquio tra quei due, naturalmente era lei l’oggetto di quella strana conversazione. Stava per raggiungere ora quel punto dove il fiume si restringe, e vedeva tutto da vicino, anzi poteva, ora, anche toccare con mano. Allungò una mano a fendere l’acqua gelida. Sfiorò le canne piangenti, accarezzò le esili foglie. Provava proprio le stesse sensazioni che aveva provato per anni. Chiuse gli occhi, era serena. In un attimo la barca arrivò alla riva. Scese lentamente e con passo pesante si avviò, scortata dal suo carceriere, verso il patibolo.